di Giulio Mastrogiuseppe.
Da un paio di giorni, dopo il lancio della nuova campagna di promozione per l’Italia varata dalla ministra del turismo Santanché, il web è diventato una bolgia di meme, parodie e prese per le natiche mai vista prima nella
storia della comunicazione.
Perfino nel mio Abruzzo le hanno dedicato uno mentre attende alla cottura del nostro simbolo gastronomico regionale: gli arrosticini di pecora.
Sorvolo ovviamente sulle più sguaiate e riporto solo la “citazione” di una battutaccia di Checco Zalone, secondo la quale nello pseudonimo “Venere23” attribuito alla figura utilizzata il numero non si riferisce alla data.
Nè Rutelli nè Franceschini, che pure di danni ne hanno prodotti di clamorosi e forse più ingenti, in termini di denari spesi ad mentula canis, sono riusciti a scatenare un’ondata altrettanto trasversale e geograficamente unitaria di battute, ironia e derisione come è accaduto per la povera Venere del Botticelli ridotta ad una sciacquetta (per qualcuno un trans) in gita.
Potrei insinuare malignamente, che considerata l’idea di turismo del socio – ex o attuale non ho capito ancora bene – della ministra non è che ci si potesse aspettare una trovata geniale o esteticamente raffinata. Del resto l’esordio di Daniela Santanché si deve a “Viva le Donne”, mitica trasmissione dell’allora Fininvest, condotta da Andrea Giordana e Amanda Lear nel lontano 1983. Molto prima di due dilettanti come Salvini e Renzi da Mike Bongiorno.
Tuttavia, tornando a bomba, i nove milioni spesi sono un’enormità, soprattutto se si entra nel merito della produzione e si pensa che non hanno speso nemmeno due spicci per registrare il dominio web, accaparrato accortamente da un privato che conosce il mestiere.
Così come gridano vendetta il set in Slovenia, la bottiglia di vino sloveno anche quello e perfino – cosa veramente da poveracci per l’agenzia che ha avuto l’incarico – l’uso di foto da stock per gli abiti di “Venere23”.
Nemmeno uno shooting di mannequin con abiti italiani hanno avuto la decenza di fare, per risparmiarci almeno la derisione mondiale di mostrare la sublime bellezza del rinascimento impataccata con qualche straccetto cinese.
Sciatteria per inciso, lo dico da smanettone, che arriva perfino all’uso di una immagine inviata via Whatsapp che, come sanno tutti gli addetti ai lavori, degrada enormemente la qualità del file da riprodurre o stampare.
Ci sono stati precedenti storici? Se vogliamo fare i colti e dire che anche i grandi cicli pittorici di chiese e cattedrali fossero “media”, forse il più nobile è quello di Daniele da Volterra detto il “Braghettone”, incaricato coprire i nudi michelangioleschi della Cappella Sistina con foglie di fico e vestimenti.
Ma c’entrava il Concilio di Trento e si trattava del Vaticano, non di Facebook o Instagram.
Una cosa è certa però: come il “Braghettone” lo fu dei suoi tempi, “Venere23” è l’autentico segno dei nostri, la certificazione che l’Italia è diventata un luna-park anche a livello inconscio perché, che il guasto sia profondo, è testimoniato da episodi piccoli e grandi.
Ormai ci siamo dentro fino al collo e la colpa non è solo del Biscione.
Saranno il “Cafonal” di Dagospia o “La Grande Bellezza” di Sorrentino a tramandare ai posteri la rappresentazione compiuta del minestrone dal quale questo capolavoro venne fuori?