La celebrazione della “Giornata internazionale contro l’omofobia, la transfobia e la bifobia”, rilancia un tema sul quale, da noi, c’è ancora molto da fare rispetto a tutti gli altri paesi europei e occidentali.
La celebrazione è stata istituita nel 2004 dalle Nazioni Unite e dall’Unione europea, a 14 anni dalla decisione del 17 maggio 1990 di rimuovere l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali nella classificazione internazionale delle malattie pubblicata dall’Organizzazione mondiale della sanità.
Si celebra tutti gli anni, appunto il 17 maggio, in ricordo della data in cui l’Oms definì, per la prima volta nella storia, l’omosessualità come “una variante naturale del comportamento umano”.
Sebbene l’Italia supporti attivamente la Dichiarazione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite su “diritti umani, orientamento sessuale e identità di genere” del 2008, nel nostro paese vigono tutta una serie di questioni che si pongono da ostacolo alle finalità degli organismi mondiali ed europei.
E non è tanto una questione di legislazione o di regolamenti amministrativi.
Purtroppo è una questione di mentalità che serpeggia tra la popolazione, prima che tra ampie fette della politica.
E questo se vogliamo è ancor più grave.
In primo luogo per ragioni di libertà. Non siamo nel medioevo e tantomeno in epoche in cui regnava il regime inquisitorio contro le streghe. Non dovrebbe essere difficile capire che ognuno ha diritto di vivere la sua sessualità come cacchio gli pare.
C’è poi una questione di tolleranza, anzi di intolleranza, con episodi spesso aggressivi che sono sfociati nella violenza, espressione di una sub-cultura che pone l’Italia unica in Europa. Violenze, intimidazioni per fare che? Per cambiare le cose o per cancellare un certo tipo di persone dall’umanità? Cosa dovrebbero fare, vivere nelle catacombe? Difficile accettare che non si capisca che ogni persona non può essere diversa da quel che è e, come persona, ha il diritto di vivere come chiunque altro.
Infine c’è un aspetto che spesso sfocia nella ipocrisia. È quando si sente qualcuno, anzi più di qualcuno, che parla di famiglia naturale, di famiglia felice, si appella spesso alla Chiesa dimenticando le aperture di Papa Bergoglio.
Questa è la cosa che più mi fa incavolare perché, dietro lo sfondo di questa fantomatica “famiglia del Mulino Bianco”, che molti si affannano a dipingere, si nascondono persone che o non sono sposate con il loro compagno, oppure hanno 4 o 5 figli con donne diverse come quel politico di grande rilievo che ostentava il rosario e invocava la Madonna a ogni comizio o a ogni intervento parlamentare.
E qui un bel “ma vaffanculo” scatenerebbe sicuramente una standing ovation.
E anche se fossero coppie regolarmente sposate, senza portarsi dietro una valigia di sentenze di precedenti divorzi, in quante ci sono storie di corna, di tradimenti, e quante continuano a stare insieme per apparenza o, come suona la formuletta magica, “per i figli”?
Lo chiedo a voi. Datevi una risposta!
Certo le generalizzazioni sono odiose, non sempre è così e c’è chi è davvero felice nella propria famiglia con il proprio coniuge e con i propri figli.
Ma siccome non è la regola, la “famiglia del Mulino” diventa un teorema destinato alla virtualità.
E soprattutto è una ipocrisia alla quale sarebbe bene che, a partire dai politici, si smettesse di far ricorso.
Vedete quando si parla di Riformismo si deve intendere proprio questo. Non l’ammodernamento dello stato attraverso la riforma di alcuni suoi settori, non un’opera di ingegneria costituzionale o della pubblica amministrazione, come da diversi anni numerosi sedicenti riformisti hanno voluto far credere.
Il Riformismo, quella vero, quello socialista e di Turati, si propone di ammodernare la società prendendo per mano ogni persona per educarla verso più alte vette di civiltà e di valori universali.
Si tratta della libertà, della pace, del ripudio della violenza, della eguaglianza e della equità.
Si tratta degli stessi valori nei quali si finge di credere quando la gente va a messa a Natale o a Pasqua.
E allora che ci si cominci a credere davvero perché in fondo, prima dei Riformisti, quelle cose le predicò Gesù.
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Massimo Carugno
Vice Direttore. Nato nel 1956, studi classici e poi laurea in giurisprudenza, oggi è avvocato nella sua città, patria di Ovidio e Capograssi: Sulmona. Da bambino, al seguito del padre ingegnere, ha vissuto, dall’età di 6 sino ai 12 anni, in Africa, tra Senegal, Congo, Ruanda, Burundi, rimanendo anche coinvolto nelle drammatiche vicende della rivolta del Kivu del 1967. Da pochissimi anni ha iniziato a cimentarsi nell’arte della letteratura ed ha già pubblicato due romanzi: “La Foglia d’autunno” e “L’ombra dell’ultimo manto”. È anche opinionista del Riformista, di Mondoperaio e del Nuovo giornale nazionale. Impegnato in politica è attualmente membro del movimento Socialista Liberale.
2 commenti
Condivido il contenuto dell’ articolo e l’ orientamento ideologico che sottende.
Ogni persona che si reputa cristiana dovrebbe “amare il prossimo suo come se stesso,” e ogni vero riformista dovrebbe evitare l’ ipocrisia sui temi che riguardano le libertà.
Strumentalizzare la Chiesa per propagandare modelli sociali che non trovano riscontro nella società italiana del 2023 è una mera operazione mediatica populista.
La materia è indubbiamente complessa, oltre che controversa, e non manca così il rischio di “scivoloni”, ma davanti al “Lo chiedo a voi. Datevi una risposta !” provo ad esporre la mia opinione in merito, che diverge abbastanza da quella del Vicedirettore, almeno così mi sembra di poter dire, visto che qui si ritiene grave l’osservare che una certa qual mentalità serpeggi “tra la popolazione, prima che tra ampie fette della politica”.
Nel sentire comune non è a mio avviso in discussione il fatto che “ognuno ha diritto di vivere la sua sessualità come cacchio gli pare”, ma questo diritto degli uni non dovrebbe impedire che altri possano esprimere riserve sulla sessualità “non convenzionale”, quantomeno per una logica di reciprocità, e in ossequio all’art. 21 della nostra Costituzione, che consente a ciascuno di manifestare liberamente il proprio pensiero.
Ciò dovrebbe di riflesso significare che nella nostra società possono avere libera circolazione punti di vista distanti e anche opposti tra loro, senza dover provare “indignazione” per quelli che non ci sono eventualmente graditi, tanto da volerli casomai tacitare attraverso un inasprimento delle norme, il che non mi parrebbe molto riformista (sto parlando ovviamente delle idee, e non di riprovevoli comportamenti aggressivi)
Circa la “fantomatica famiglia del Mulino Bianco” c’è chi ci crede, unitamente ai simboli religiosi, quale “punto fermo” ideale, e noi non possiamo banalizzare le idealità, in una coi valori cui far riferimento, seppure non sempre riusciamo a rispettarli, ma ciò non significa che quel determinato valore perda d’importanza (salvo ad es. teorizzare che la famiglia tradizionale non rappresenta più un valore, ma mi sembrerebbe un bell’azzardo).
Nei valori c’è talora una qualche dose di retorica, e anche di ipocrisia, ma una società che vuole disfarsene, in nome di modernità e progresso, può correre il reale pericolo di disorientarsi, specie se al posto dei valori tradizionali, una volta che sono stati smantellati, non resta che un confuso “nulla”, dove può starci tutto e il suo esatto contrario, e non credo che questa sia la maniera con cui il Riformismo intende ammodernare la società.
Quanto alle effettive o presunte aperture della Chiesa, e al volerla strumentalizzare per “propagandare modelli sociali che non trovano riscontro nella società italiana del 2023”, a me sembra che andrebbe innanzitutto e laicamente preso atto che nel popolo dei credenti sembra esservi una parte rimasta ancorata ai cosiddetti principi non negoziabili, e che nella geografia politica cerca verosimilmente chi può farsene portavoce e paladino.
Paolo Bolognesi 18.05.2023