di Antonio Pappalardo
Un destino accomuna i Socialisti, i Socialisti Democratici e i Carabinieri.
I Carabinieri nascono, nel piccolo Regno del Piemonte, il 13 luglio 1814 con Regie Patenti, per buona condotta e saviezza distinti, per il buon ordine e l’osservanza della legge all’interno dello Stato, come Prima Arma dell’Esercito, il tutto, come è scritto testualmente, ”… al fine di contribuire alla maggior felicità dello Stato, che non può andar disgiunta dalla protezione e difesa dei buoni e fedeli Sudditi Nostri”.
Il Socialismo, nato nel XIX secolo, è un ampio e complesso contesto di ideologie, orientamenti politici, movimenti e dottrine che tendono a una trasformazione della società in direzione dell’uguaglianza degli uomini, o comunque alla proporzionalità di tutti i cittadini sul piano economico, sociale e giuridico. Si può definire come un modello o sistema economico che rispecchia il significato “sociale”, che pensa cioè a tutta la popolazione.
Originariamente tutte le dottrine e movimenti di matrice socialista miravano a realizzare obiettivi attraverso il superamento delle classi sociali e la soppressione, totale o parziale, della proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio.
Nel 1892 nasce a Genova il Partito Socialista Italiano, che raccoglie le frange riformiste e rivoluzionarie, ma che subito si suddivide in diversi rivoli, che vengono sciolti dal fascismo per riprendere vigore dopo il 1943, suddivisi in PSI e PSDI.
Nel 1922 il giovane Giuseppe Saragat aderisce al socialismo, non tanto per vocazione ideologica, quanto per solidarietà nei confronti della gente povera, di quel proletariato che andava organizzandosi, oppresso dai “figli di papà” come ebbe a dire lui stesso.
Dopo l’approvazione delle leggi eccezionali che instaurarono la dittatura fascista in Italia, Saragat scelse la via dell’esilio, valicando il confine elvetico.
Saragat rientrò in patria all’indomani del 25 luglio 1943. Fu arrestato alla frontiera di Bardonecchia perché figurava ancora nell’elenco dei sovversivi.
Dopo pochi giorni, tuttavia, Badoglio liberò i prigionieri politici e Saragat poté recarsi a Roma dove, il 25 agosto, prese parte alla prima direzione che sancì la ricostituzione del Partito Socialista Italiano in Italia (con il nome di PSIUP).
Con l’occupazione tedesca di Roma, Saragat entrò nella Resistenza. Il 18 ottobre, insieme a Pertini, fu arrestato dalle autorità tedesche e venne rinchiuso nel carcere romano di Regina Coeli, prima nel VI braccio (politici), poi nel III (condannati a morte).
Riuscì ad evadere il 24 gennaio 1944 grazie a un gruppo di partigiani che falsificarono un ordine di scarcerazione.
Il 2 giugno 1946 venne eletto deputato all’Assemblea Costituente, di cui fu Presidente sino al 1947.
Contrario al proseguimento dell’alleanza tra i Socialisti e il Partito Comunista Italiano, nel gennaio del 1947 diede vita alla cosiddetta “scissione di palazzo Barberini”, dalla quale ebbe origine il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani.
Alle elezioni politiche del 1948 si schierò contro il Fronte Democratico Popolare, l’alleanza social-comunista in cui militava anche Nenni.
Durante la campagna elettorale e nei mesi successivi alle elezioni il Fronte gli rimproverò l’alleanza con la Democrazia Cristiana, usando contro Saragat alcune espressioni politicamente denigratorie quali “social-fascista”, “social-traditore”, “rinnegato”.
Nel 1951, il PSLI divenne Partito Socialista Democratico Italiano.
Il dissidio ideologico tra Nenni e Saragat ebbe fine all’indomani della pubblicazione del Rapporto segreto di Chruščёv, quando, nell’agosto del 1956, i due leader si incontrarono nella località francese di Pralognan, nelle montagne della Savoia, per formulare una comune strategia tra i loro partiti, che preludeva alla riunificazione e alla formula politica del centro-sinistra.
Nel 1964 Saragat fu eletto Presidente della Repubblica con 646 voti su 963 componenti l’assemblea (67,1%).
Saragat morì nel 1988 a Roma. Il funerale venne eseguito con rito cattolico nella chiesa di Santa Chiara a Vigna Clara.
Dal 1962 si cominciano a formare governi di centro sinistra, che hanno il massimo fulgore con Saragat Presidente della Repubblica e in seguito con Bettino Craxi, Capo del Governo.
Nonostante le positive esperienze e il buon andamento dell’economia in Italia, inspiegabilmente cominciano a nascere dissidi e contrasti, che portano sempre più la DC a distanziarsi dal PSI e ad avvicinarsi al PCI; per cui aumentano le segrete manovre per riunire i due partiti italiani più consistenti.
La svolta si ha nel 1981 quando avvengono due fatti eclatanti: il Ministro delle Finanze Andreatta spedisce, autonomamente, ignorando governo e parlamento, una lettera al Governatore Ciampi della Banca d’Italia, in cui sostanzialmente rende autonomo l’Ente bancario dall’Esecutivo; viene costituita la Polizia di Stato, doppione dell’Arma dei Carabinieri, con l’intento, stante a quanto dichiarerà Francesco Cossiga, di porre l’Arma sotto la sfera politica della DC, e la Polizia di Stato del PCI.
Si riporta integralmente la strabiliante dichiarazione del 30 marzo 2000 del senatore Cossiga raccolta dall’ANSA alle ore 20,54: “Certo non può destare meraviglia la reazione istintiva degli ambienti di sinistra e di para-sinistra nei confronti di ciò che riguarda un carabiniere a confronto della benevola tolleranza nei confronti di un atteggiamento altrettanto grave del noto Aliquò, forse però assunto per rispetto o benevolenza dei suoi mandanti o dei suoi timidi superiori. Ciò mi ricorda quanto mi disse, quando ero ministro dell’Interno, il responsabile del PCI della riforma della Polizia a me che pur della smilitarizzazione della Polizia ero stato promotore e praticamente realizzatore: “Voi la vostra polizia ce l’avete già ed è l’Arma dei Carabinieri. Adesso noi ci facciamo la nostra”.
In questa spartizione rimanevano esclusi il PSI, il PSDI, il PRI e il PLI, che pure avevano fatto parte dei governi di centrosinistra. Già nel 1981 si riteneva che la DC e il PCI fossero i perni del potere politico e che quindi solo ad essi fosse riservato il controllo e il dominio delle due forze di polizia a competenza generale e delle massime Istituzioni dello Stato.
Tutto ciò nonostante nel 1989 fosse crollato il muro di Berlino e i partiti comunisti di tutta Europa fossero scomparsi, tranne che in Italia. Chi aveva deciso di far sopravvivere il PCI e per quali fini?
Ciò preludeva ad una ovvia e conseguente futura saldatura fra i due partiti per la costruzione di un sistema monetario, economico e finanziario in Europa, da cui dovevano essere necessariamente esclusi il PSI, il PSDI, il PRI e il PLI, dato che Bettino Craxi era solito ripetere che “l’Europa sarebbe stato un inferno per l’Italia”.
Si riporta un articolo del 22 gennaio 2017, scritto da Vincenzo Bellisario, in cui si parlava del declino, per l’Italia, la prima vittima dell’euro, grazie a un certo Romano Prodi. E il contesto è chiaro: si scrive globalizzazione, ma si legge impoverimento della società e perdita di sovranità e indipendenza.
Un uomo che «bisognava eliminare a tutti i costi», scrive Bellisario, sul blog del “Movimento Roosevelt”, ricordando alcuni punti-chiave del vero lascito politico del leader socialista, eliminato da Mani Pulite alla vigilia dell’ingresso italiano nella sciagurata “camicia di forza” di Bruxelles, i cui esiti si possono misurare ogni giorno: disoccupazione dilagante e crollo delle aziende, con il governo costretto a elemosinare deroghe di spesa per poter far fronte a emergenze catastrofiche come il terremoto.
“C’è da chiedersi perché si continua a magnificare l’entrata in Europa come una sorta di miraggio, dietro il quale si delineano le delizie del paradiso terrestre», scriveva Craxi oltre vent’anni fa. Con questi vincoli Ue, «l’Italia nella migliore delle ipotesi finirà in un limbo, ma nella peggiore andrà all’inferno”.
Così è sorta un’Europa in preda alla disoccupazione e alla conflittualità sociale, mentre le riserve, le preoccupazioni, le prese d’atto realistiche, si stanno levando in diversi paesi che si apprestano a prendere le distanze da un progetto congeniato in modo non corrispondente alla concreta realtà delle economie e agli equilibri sociali che non possono essere facilmente calpestati.
Il governo italiano, visto l’andazzo, avrebbe dovuto, per primo, essendo l’Italia, tra i maggiori paesi, la più interessata, porre con forza nel concerto europeo il problema della rinegoziazione di un Trattato che nei suoi termini è divenuto obsoleto e financo pericoloso.
Rinegoziare Maastricht? Nemmeno per idea. Non lo ha fatto il governo italiano. Non lo fa l’opposizione, che rotola anch’essa nella demagogia europeistica. A tener banco, ancora, saranno i declamatori retorici dell’Europa», ovvero il delirio europeistico che non tiene conto della realtà.
Affidare effetti taumaturgici e miracolose resurrezioni alla moneta unica europea, dopo aver provveduto a isterilire, rinunciare, accrescere i conflitti sociali, è una fantastica illusione che i fatti e le realtà economiche e finanziarie del mondo non tarderanno a mettere in chiaro.
La globalizzazione non viene affrontata dall’Italia con la forza, la consapevolezza, l’autorità di una vera e grande nazione, ma piuttosto viene subita in forma subalterna in un contesto di cui è sempre più difficile intravedere un avvenire, che non sia quello di un degrado continuo, di un impoverimento della società, di una sostanziale perdita di indipendenza».
Questo mortificante mutamento si colloca in un quadro internazionale, europeo, mediterraneo, mondiale, che ha visto l’Italia perdere, una dopo l’altra, note altamente significative che erano espressione di prestigio, di autorevolezza, di forza politica e morale.
Non è certo amica della pace questa «spericolata globalizzazione forzata», in cui ogni nazione perde la sua identità, la consapevolezza della sua storia, il proprio ruolo geopolitico.
Cancellare il ruolo delle nazioni significa offendere un diritto dei popoli e creare le basi per lo svuotamento, la disintegrazione, secondo processi imprevedibili, delle più ampie unità che si vogliono costruire.
Dietro la longa manus della cosiddetta globalizzazione si avverte il respiro di nuovi imperialismi, sofisticati e violenti, di natura essenzialmente finanziaria e militare, opportunamente “accolti” da politici perfettamente adatti a questo nuovo ruolo di maggiordomi.
Craxi doveva essere fatto fuori, ed è stato fatto fuori con la falsa indagine di Tangentopoli, affidata abilmente ad un Sostituto Procuratore della Repubblica, Antonio Di Pietro, che non appartenendo ad alcuno schieramento politico di sinistra, poteva meglio essere creduto.
Ma prima di Craxi era stato fatto fuori nel 1983 Carlo Alberto dalla Chiesa.
È inutile nascondere talune verità: Dalla Chiesa, sin da Comandante della Divisione di Milano aveva manifestato simpatie e apprezzamenti per il PSI.
Parcheggiato a Roma, nell’incarico di Vice Comandante Generale dell’Arma, all’uccisione di Pio la Torre aveva chiesto e ottenuto di essere inviato come Prefetto di Palermo, per combattere la mafia.
Ma, inspiegabilmente, circolava, senza scorta, con la sua autovettura guidata dalla moglie per le strade di Palermo.
La sua uccisione è un enigma: poteva il generale sfidare la mafia a viso aperto a tal punto da esporre la moglie a morte certa?
A chi stava dando fastidio, dato che nei 100 giorni in Palermo non aveva svolto alcuna rilevante operazione di polizia contro la mafia?
Qualcuno forse temeva che l’anno successivo egli si potesse presentare alle elezioni politiche con quel PSI, di cui nelle segrete stanze del potere qualcuno parlava?
Le sue scelte politiche avrebbero contrastato quanto si era già deciso in taluni contesti lobbistici internazionali?
Nessuno, in quel momento storico doveva avvicinarsi al PSI e ai suoi alleati (soprattutto il PSDI), che era stato deciso dovesse morire in modo lento e inesorabile al fine di eliminare qualsiasi ostacolo all’unione fra DC e PCI e alla moneta unica.
L’eventuale percorso politico di Dalla Chiesa poteva provocare un avvicinamento dei Carabinieri ai Socialisti, che andava evitato.
Ma ucciso un Generale dei Carabinieri, ne spunta un altro.
Antonio Pappalardo, all’epoca Tenente Colonnello e Presidente del COCER Carabinieri, dopo aver lottato strenuamente contro i tentativi di alcuni partiti politici di lottizzare i Carabinieri, al termine del suo mandato, con circa 40 poliziotti e militari (carabinieri, finanzieri, poliziotti penitenziari, poliziotti municipali, soldati, marinai e avieri, vigili del fuoco), considerati “rivoluzionari”, decide di candidarsi, con un movimento spontaneo, nel PSDI, memore delle scelte coerenti e democratiche di Giuseppe Saragat.
Tale scelta è uno dei momenti più esaltanti della vita politica in Italia perché, mentre in Portogallo i militari, invece di sparare addosso ai manifestanti preferirono mettere garofani nelle canne dei loro fucili, così in Italia gli uomini in divisa fecero una scelta di democrazia, libertà e legalità.
Ma il regime, che aveva ormai avviato il connubio DC/PCI, avversò con ogni mezzo, anche con la complicità di alcuni vertici dell’Arma dei Carabinieri, Antonio Pappalardo, per cui fu inaspettatamente interrotto questo cammino.
Ma Antonio Pappalardo non si ferma e fonda il movimento Gilet Arancioni, che intende proclamare, in linea con i principi del Socialismo e della Socialdemocrazia, Italia Paese della Pace, al centro di un ampio contesto di circa 2 miliardi e mezzo di cristiani, che intendono riunirsi nel rispetto dei principi e dei valori della “Carta Universale dell’Umanità”
Al fine di sfuggire all’attuale lottizzazione politica dei Carabinieri, è previsto il loro riordino, per far sì che essi ritornino ad essere una forza armata di polizia dell’Ordinamento dello Stato.
Socialisti, Socialisti democratici e Carabinieri debbono tornare alle loro origini, per servire solo il Paese.
A tale fine si deve costituire un “Polo democratico”, che si riconosca negli ideali e nei valori di quei partiti e movimenti che hanno operato per la nascita di una Repubblica, libera, autonoma e democratica.