In questi tredici anni qualcosa deve pur essere cambiato da allora, se è vero che oggi l’Europa si sta strenuamente impegnando a evitare il crac tunisino, pur senza dimenticare che il suo presidente Kaïs Saïed sembra mettercela tutta ad allontanare il suo Paese dalla democrazia. Basti pensare al radicamento di una vera e propria retorica contro i migranti subsahariani che sta prendendo piede dopo il recente discorso di Saied che ha alluso addirittura all’esistenza di un complotto internazionale per far regredire la Tunisia ad un paese “solamente africano“, cercando di demolirne l‘identità etnica e culturale. Eppure il resto del mondo si sta prodigando, contrariamente a quanto sostiene Saied, per evitare la bancarotta tunisina, aprendo continui contatti con le maggiori istituzioni finanziarie del pianeta e pressando affinchè nuovi prestiti siano concessi al Paese. Che la situazione economica tunisina sia sicuramente preoccupante, tuttavia, non è un’evidenza che salta agli occhi solo oggi: a conti fatti sono oltre dieci anni, e cioè fin dai giorni della Rivoluzione dei Gelsomini, che l‘economia del paese non registra alcun miglioramento. Allora, le cruente manifestazioni nelle piazze non furono solo politiche ma anche economiche, ma se le richieste politiche sono state (parzialmente) esaudite con l’avvio di un certo processo sistematico di democratizzazione, che da circa due anni sembra comunque subire una progressiva involuzione, dal punto di vista economico i problemi strutturali della Tunisia si sono perfino aggravati: gli investimenti, sia interni che esteri, restano irrilevanti e non determinanti; il settore privato è debole; il settore pubblico è ipertrofico, ed è stato dannoso decidere di utilizzarlo per lenire il dramma della disoccupazione: l’espediente ha solo fatto lievitare le già gravose spese statali, gonfiando ancora il debito pubblico complessivo. Circa la bilancia commerciale tunisina, le cose non sembrano più rosee: ingenti, troppo, sono i flussi di importazione di beni primari, e quando a causa dell’invasione russa in Ucraina i prezzi di grano e cereali sono schizzati alle stelle, anche questa voce della spesa è cresciuta a dismisura. E prima del conflitto ucraino c’era stata la pandemia di Covid, che aveva già abbattuto le entrate del settore meno penalizzato del bilancio tunisino, quello del turismo, che però rende floride la zone costiere del paese ma non certo quelle interne, simbolo evidente di grosse disuguaglianze non solo economiche ma anche sociali nella popolazione. Tutto ciò ha fatto salire l’inflazione al massimo livello registrato negli ultimi 30 anni, cioè al 10% (per inciso: merci come zucchero, latte, olio e riso scompaiono periodicamente dagli scaffali dei supermercati); la disoccupazione è arrivata a sfiorare il drammatico tetto del 15%, con punte (tragiche) del 37% nel sottosettore della disoccupazione giovanile. E il debito pubblico oggi è al 90% del PIL. Dati tipici di un imminente tracollo economico, che giustificano tutti i timori sull’insolvenza tunisina tanto sul suo debito quanto sul suo sempre più probabile collasso finanziario.
Per queste ragioni senza aiuti internazionali sarà molto difficile che la Tunisia riuscirà a superare questa crisi senza precedenti, partendo dall’impossibilità materiale di non poter neanche contare sui fondi minimi utili a far funzionare la macchina amministrativa statale. Da qui la necessità di negoziare rapidamente un nuovo prestito con il Fondo Monetario Internazionale, cosa che è stata avviata a dicembre scorso e attualmente è all’impasse: dopo mesi di colloqui tra i suoi funzionari e il governo tunisino, infatti, il FMI ha deciso di congelare il prestito da 1,9 miliardi di dollari che aveva promesso al presidente Kais Saied in cambio dell’adozione immediata di politiche di austerità. Le motivazioni sono simili a quelle legate al nostro PNRR: questa tipologia di prestiti tra Stati comporta una lunga teoria di condizioni da soddisfare, spesso relative alla necessità di garantire le dovute riforme economiche di sistema. Il Fondo Monetario Internazionale ha già chiesto a Tunisi non solo di risanare le imprese pubbliche, esattamente come hanno già fatto in prima istanza Francia e Italia (principali partner commerciali tunisini), ma anche di migliorare il controllo dei salari del settore pubblico, rendere più efficiente la riscossione delle tasse e dei tributi e soprattutto provvedere a ridimensionare il sistema alquanto bizzarro dei sussidi, intervendo a regolamentare soprattutto quelli ora vigenti su benzina e grano, che andrebbero più oculatamente sostituiti con forme di aiuti alle famiglie – da eliminare progressivamente nel tempo. Ma proprio quest’ultimo aspetto preoccupa il governo tunisino, perché eliminare gli attuali sussidi significa suscitare nuove proteste popolari e quindi arrecare ulteriore instabilità allo Stato.
Nonostante i rischi correlati alle manovre necessarie, senza i fondi promessi dal FMI la Tunisia andrà incontro a maggiori penurie di cibo perché le mancano le risorse per pagare le forniture. Non solo: senza attuare i piani di risanamento generale suggeriti dal FMI, si produrrà un’ulteriore svalutazione del dinaro tunisino, e da qui si scivolerebbe verso un sicuro ulteriore aumento dell’inflazione. E se i prestiti del Fondo Monetario non saranno erogati, resteranno bloccati tutti gli altri investimenti internazionali.
Anche Paolo Gentiloni, Commissario europeo agli affari economici, nel suo ultimo viaggio diplomatico a Tunisi ha promesso nuovi aiuti alla Tunisia ma solo se verranno soddisfatte due condizioni essenziali: attuazione delle riforme economiche chieste dal FMI e impegno alla salvaguardia della democrazia, dello stato di diritto e dei diritti umani, tutti fondamenti sociali che sono stati messi a repentaglio dall’involuzione politica del Paese registrata nell’ultimo biennio.
Lo scorso 7 marzo perfino la Banca Mondiale ha sospeso alcune sue linee di assistenza verso la Tunisia proprio dopo aver constatato l’indebolimento degli standard democratici nel paese, segnatamente rispetto alle violente dichiarazioni del presidente Saied sui migranti. L’attuale piano di risanamento del bilancio tunisino mira a ridurre il deficit fiscale al 5,2%, partendo da una previsione iniziale del 7,7%, e suppone di farlo aumentando le tasse per diverse categorie professionali tra cui avvocati, ingegneri e contabili, (innalzandone la percentuale di prelievo dal 13% al 19%), e diminuendo la spesa salariale nel settore pubblico di un intero punto percentuale. Inoltre, sempre entro la fine del 2023 il governo conta di ridurre la spesa per i sussidi del 26,4%, soprattutto quelli sui sostegni energetici e alimentari, e lo farà anche aumentando i prezzi dell’acqua potabile.
Il più grande sindacato del paese, l’UGTT – Union Générale Tunisienne du Travail, ha fin da subito dichiarato guerra a queste politiche di austerità bloccando l’intero paese con scioperi e manifestazioni, riuscendo così già a ottenere l’aumento del 5% dei salari dei dipendenti del settore pubblico. Un’incoerenza clamorosa, e una manifestazione di debolezza governativa tout court. Ecco perché il Fondo Monetario ha immediatamente segnalato che non andrà avanti col piano di salvataggio promesso a Tunisi, a meno che il governo non coinvolga il sindacato, nonostante l’aperta opposizione di Saied e delle sue politiche sempre più autoritarie: Saied che da parte sua, in meno di due anni, dal 25 luglio 2021 – quando congelò letteralmente l’operato del Parlamento, è riuscito non solo a concentrare sempre più potere nelle proprie mani (facendo addirittura adottare una nuova costituzione) ma anche a eliminare dalla vita politica i partiti politici e tutte le forze di opposizione presenti nel Paese. Lo scorso marzo il presidente, ex professore di diritto costituzionale, ha offerto una nuova dimostrazione del suo crescente autoritarismo facendo arrestare decine di oppositori politici, tra i quali alti diplomatici, giudici, giornalisti e funzionari sindacali, definendoli “terroristi” e accusandoli di voler sovvertire l’ordine dello Stato alimentandone la tensione sociale. Si tratta di accuse manipolatorie che mirano a scaricare le colpe del governo sulla pesante crisi socio-economica ma che, pur non costituendo alcuna prova oggettiva di reato, in caso di condanna potrebbero portare a pene detentive molto severe, e in alcuni casi perfino alla pena di morte.