Premessa
Il titolo originario era Tossiche e Puttane, perchè è così che, al netto degli elegantoni, vengono da tutti chiamate. Il rischio era quello della censura, perchè oggigiorno possiamo pensare e parlare male, purchè non lo si faccia on line. Quindi meretrici.
Eppure non basterebbe un mese e una scrittura fitta fitta, per raccontare le storie mai raccontate di queste vittime di serie B, o meglio Z. Storie di donne, ragazze, anche giovanissime assassinate violentemente, con modalità atroci e feroci che, però, non hanno diritto d’asilo nei rotocalchi e nelle trasmissioni tv. Eppure avevano una famiglia, degli amici, ed arano andate a scuola, in palestra, al parco con i nonni, come tutti noi. Persone che per necessità ma anche per volontà hanno fatto delle scelte nella vita, diverse dalle tue che stai leggendo e, forse, sei già pronto a biasimarle.
Negli anni che stiamo indagando, i primi anni ’80, accanto ai molteplici sequestri attuati dalla malavita organizzata di stampo mafioso, agli scontri studenteschi, gli assassini politici, il terrorismo con le sue stragi e le eclatanti scomparse di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, hanno luogo una lunga serie di omicidi, prevalentemente di donne delle quali, se se ne escludono un paio, non solo il loro assassino non è mai stato assicurato alla giustizia ma di loro non è rimasta memoria alcuna.
Sono storie di ragazze tossicodipendenti e dedite alla prostituzione, queste due caratteristiche, le hanno rese meritevoli di forzato oblio perchè colpevoli delle loro scelte che, da evidente opinione di molti benpensanti, sono la causa di tale epilogo. Dunque “se la sono cercata“. Non so se a questa conclusione, questi esempi di rettitudine, con l’amante da 15 anni, la prostituta bambina in Thilandia, l’evasione fiscale ed un’imbarazzante dipendenza da Viagra e antidepressivi, siano giunti per omologazione al bigotto e ignorante pensiero comune o per spiccata bastardaggine personale.
Alla luce di queste precisazioni mi sento particolarmente motivata ad intraprendere questo cammino, consapevole che, di puttane e persone tossiche, in vita mia, ne ho conosciute fin troppe e nessuna di queste batteva il marciapiede o faceva uso di stupefacenti.
Bruna Vettese
Questa madre di famiglia, costretta dalle difficoltà a prostituirsi tra via Merulana e via Labicana. Viene ritrovata senza vita vicino al rudere della Torraccia, sull’Appia Antica, alle 11.30 della mattina di sabato 19 febbraio 1983, da un giovane intento nel footing. Il corpo della signora Bruna Vettese, 31 anni, è abbandonato seminudo, i carabinieri avanzeranno l’ipotesi che sia stata uccisa in macchina e poi gettata come un sacco di rifiuti in quella conca al lato della strada, al numero 267. L’ipotesi si basa sul fatto che Bruna, che ha ancora i tre grossi maglioni di lana, indossati l’uno sull’altro per difendersi dal freddo, è però priva di uno stivale, mai ritrovato. Questo particolare ci riporta alla mente un altro corpo rinvenuto alla Torraccia: quello della giovanissima ragazza incinta, Rosa Martucci, assassinata con le stesse modalità qualche mese prima, il 7 aprile del 1982, fu trovata priva di uno stivale; la seconda calzatura, di colore rosso, è stata trovata accanto al corpo, vicino alla borsetta.
Il viso presenta grumi di sangue rappreso, riferiranno che la donna è probabilmente stata colpita da un fendente per tramortirla, infatti il setto nasale è rotto, verrà confermato anche dall’autopsia. La causa della morte è individuata dal medico legale, il professor Colesanti, nello strangolamento, attuato munendosi del foulard nero che la donna portava al collo.
Il foulard di Bruna è stata una doppia maledizione: le si è ritorto contro divenendo l‘arma del delitto e ha attenuato i segni che, altrimenti sarebbero stati ben visibili sul collo, informandoci della forza messa nella pressione e altri piccoli dettagli. Poca roba, ma sempre meglio di niente. Dal Corriere della Sera del 20 febbraio 1983 apprendiamo che
«Secondo la perizia necroscopica, la donna è stata uccisa durante un rapporto sessuale. L’assassino ha impedito alla donna di divincolarsi, schiacciandola col peso del suo corpo; mentre con una mano l’ha strangolata, con l’altra le ha chiuso la bocca per impedirle di urlare».
Il movente: ipotesi
Da un primo momento le ipotesi furono molteplici: un maniaco, il raptus di un cliente, una persona nota, la vendetta di un ruffiano rifiutato. La signora Vettese non aveva protettori, ciononostante fu una delle ipotesi scartate più velocemente. Nel giro di pochi giorni, gli investigatori fecero sapere che erano due le piste su cui si stavano concentrando: il maniaco sessuale colto da raptus, che avrebbe ucciso Bruna nella zona del Celio, per poi trasportare il cadavere fino all’Appia, oppure una persona conosciuta, mossa da smania di vendetta, di cui la Vettese si fidava e che ha accettato di seguire lungo la via consolare.
Restano molti interrogativi, l’indagine del colonnello Cagnazzo, del Reparto Operativo dei Carabinieri, riferisce della poca certezza rispetto il luogo della morte. Che l’omicidio sia invece avvenuto li dove il cadavere è stato rinvenuto? Difficile a dirsi, ma anche a farsi. A sbrogliare la matassa dovrà essere il sostituto procuratore, Rina Cusano
Storia di Bruna
Bruna è molto innamorata, quando sposa suo marito, quattordici anni prima, giovanissima. Lui è carpentiere, lei farà la mamma di quattro figli. Questo fino al 1982 quando arriva il divorzio. Vivevano nella borgata romana, ad Acilia. Nell’appartamento al secondo piano di una palazzina popolare di proprietà dell’Isveur, in via Gaetano Previati, interno 5. Intervistata da un giornalista del Messaggero, pubblicata il 20 febbraio 1983, la vicina di casa, dapprima sprezzante e ironica, cambia immediatamente atteggiamento, colta da un bagliore di umanità, quando viene a sapere della morte della giovane donna. Racconta al giornalista che prima del divorzio lei e il marito litigavano con estrema frequenza; molte le urla, tuttavia traspariva il bene che provavano l’uno per l’altra.
La separazione aumenta a dismisura le difficoltà. Bruna è sola con quattro figli; è costretta a mandare i tre figli più piccoli, l’ultimo di soli 5 anni, i in un brefotrofio di Sessano, nel Molise. Il maggiore, 14 anni, è alla Casa del Fanciullo, sul Lago di Bracciano. Per mantenerli, ora che il padre se ne è andato lavora prima come domestica presso una famiglia benestante di Acilia; quando però perde il lavoro, l’imminenza delle spese e delle scadenze non le lascia altra scelta che il marciapiede.
La madre e due delle sue sorelle vivono a pochi passi da lei, nelle cosiddette Case del Papa perchè vennero inaugurate da Giovanni XXIII, ma da loro nessun aiuto nè supporto, al contrario, appreso della professione che Bruna inizia a praticare, è disconosciuta ed abbandonata. Quando il giornalista del Messaggero si reca ad Acilia per dare la notizia, la madre non c’è, è in Sardegna ad assistere la quarta figlia che sta per mettere al mondo un bambino. Solo una delle due sorelle è in casa, con il marito. La notizia non la scuote, con freddezza, dopo che l’aveva definita la disperazione e la vergogna di tutta l famiglia, afferma «Lo sapevamo, lo sapevamo che sarebbe finita così». Prima di congedare il reporter consegna lui l‘unica foto della sorella «prendetela e tenetevela pure, che ci dobbiamo fare noi con quella?»
Alberta Battistelli
Gli assassini di Alberta li conosciamo, infatti quello che vado a raccontare non è un vero cold-case, più che altro si tratta di una sorta di caso Cucchi, o meglio, Aldovrandi, ante litteram e declinato al femminile. La storia è quella di Alberta Battistelli, freddata la notte di giovedì 10 luglio 1980, per non essersi fermata a un controllo dei vigili urbani. Citando un politico molto in voga all’epoca, che a sua volta si ispirò al diplomatico francese C.M. de Teyllerand, “Il potere logora chi non ce l’ha”
E’ la notte del 10 luglio 1980, il quartiere è Trastevere, precisamente Piazza di Santa Maria. Una ragazza di 21 anni sta guidando una 500, che più tardi si dirà rubata, giunta alla piazza una pattuglia di vigili urbani le intima lo stop; la ragazza non si ferma, travolge i tre vigili che, vedendola raggiungere l’isola esplodono cinque colpi di pistola. I colpi non sono rivolti alle gomme, ma ad altezza uomo: si spara per uccidere. E così è; con un colpo al petto a nulla serve la corsa in ambulanza, Alberta non c’è più.
Le prime versioni dell’accaduto sono molteplici e contraddittorie, c’è chi sostiene che i tre vigili siano rimasti feriti, chi ricorda un solo agente travolto, per alcuni la ragazza non era sola ma il passeggero sarebbe riuscito a fuggire. Non sono finite: qualcuno ha visto un vigile travolto, mentre la 500 urtava, facendola cadere, una motocicletta degli agenti, altri riportano invece di un inseguimento da parte dei vigili urbani, conclusosi con il colpo mortale, in piazza San Callisto.
Quel che è certo sono le reazioni immediate dei presenti che al grido di “Assassini! Assassini!” circondano gli agenti, ma in pochi istanti la piazza si riempie di vigili urbani, arrivano anche i carabinieri che allontanano i due vigili che hanno sparato; picchiano un ragazzo che li ha apostrofati “Bastardi assassini“. Un altro giovane, situato accanto alla 500 bianca, prende d’assalto una moto dei municipali dandola alle fiamme che, divampando, investono altre due vetture. La rivolta e lo sdegno sono difficili da far rientrare, tanto che i carabinieri per due giorni saranno impegnati a calmare le acque, mentre in Parlamento si moltiplicano le interrogazioni. Sotto attacco è la Legge Reale del 1975, sulla pubblica sicurezza, che ha mietuto diverse vite nella capitale, per gli abusi delle forze dell’ordine. Dalle pagine del quotidiano socialista l’Avanti leggiamo
«Non bastavano i carabinieri e gli agenti di polizia a sparare contro auto che non si fermano all’alt per un controllo o ad un posto di blocco, e, come purtroppo spesso è accaduto, ad uccidere. Adesso ci si mettono anche i vigili urbani a sparare contro auto indisciplinate e ad uccidere. Addirittura contro automobili che penetrano in un’isola pedonale, come è accaduto ieri notte a Roma in Trastevere. Adesso qualcuno dirà che l’auto era rubata e che la donna che era al volante e che è stata uccisa, poco prima aveva tentato uno scippo. Ma questo i vigili urbani, quando hanno sparato, non lo sapevano. E In ogni caso non sarebbe stato un motivo sufficiente per sparare «ad uomo» come hanno fatto».
Abusi di potere
Diventerebbe uno scritto eccessivamente lungo se dettagliassi ogni step del ginepraio in cui gli inquirenti si trovarono a districarsi per raggiungere una ricostruzione quanto più fedele alla realtà. Le versioni dei vigili urbani, che inizialmente parlano di tre colpi di arma da fuoco, non coincidono con quella dei numerosissimi testimoni che, all’una di notte, ancora affollavano i locali di Trastevere. Alcuni presenti raccolgono dal suolo 13 bossoli, così gli spari dichiarati dai municipali salgono a cinque. Sembra una contrattazione in un negozio di un suk a Marrakech; peccato che non si tratti di spezie, nè di tessuti: quelli che si contano sono i colpi di arma da fuoco che, in fine, risulteranno 21, sette a testa, sparati da distanza ravvicinata. Due sono quelli mortali.
Una brevissima riflessione prima di procedere con la ricostruzione. Leggendo i resoconti, ho provato ad immaginarmi 21 colpi di pistola. stiamo parlando di una rivoltella dove per ogni singolo colpo è prevista la pressione sul grilletto e conseguente rilascio prima del successivo, insomma non è un AK-47, un mitra; è una velocissima ma determinata successione di azioni che prevede una indiscutibile volontà. E’ una modalità che ci si può aspettare in una situazione di alta minaccia alla propria incolumità personale, piuttosto che da qualcuno in preda ad un raptus di follia omicida, come i tanti che abbiamo sentito raccontarci negli anni dalle cronache statunitensi, di disadattati instabili di mente che entrano nelle scuole e aprono le danze al piombo.
Dalle nostre parti, episodi di tale ferocia, li abbiamo registrati più che altro in ambiti familiari e passionali, piuttosto che, in misura nettamente inferiore, nel maniaco. Si pensi, anche se sarebbe meglio di no, alle 40 coltellate inferte a Susy e le 57 a Gianluca, rispettivamente madre e fratellino di Erika de Nardo che li massacrò coadiuvata dal fidanzatino Omar, piuttosto che alle 29 coltellate assestate a Simonetta Cesaroni. Olindo Romano e Rosa Bazzi con spranga e coltello massacrano Raffaella Castagna, il figlio e la madre della stessa, Youssef Marzouk e Paola Galli, nonchè la vicina di casa Valeria Cherubini e il marito, Mario Frigerio, unico sopravvissuto. In tutti questi casi la furia è alla base dell’atto che è eseguito con un’arma bianca la quale prevede, soprattutto se non si è assassini di professione, una molteplicità di fendenti per raggiungere il risultato.
Inesperienza, furia e sovraccarico adrenalinico portano al cosiddetto fenomeno dell’overkilling. La parola intende che l’offender, colui che compie l’atto criminale, ha ecceduto in modo spropositato nella azione lesiva che ha causato la morte. Quindi che abbia, ad esempio colpito molte più volte di quanto non sia necessario per cagionare il decesso. Questo scenario stride con i fatti di Trastevere dove non si presenta nessun pericolo oggettivo, anzi, la ragazza sembra confusa e attardata nei movimenti, probabilmente aveva assunto sostanza. Si, perché Alberta aveva un debole per gli stupefacenti, un debole che le aveva già causato qualche problemino, un debole che non legittima nessuno a toglierle la vita a soli 21 anni.
Il problema è che il vigile urbano non è un agente delle forze dell’ordine; non ha nè una preparazione fisica, nè una preparazione teorica, nè una preparazione tecnica per tentare di emulare, sentendosi investiti di chissà quale missione e sventolando rivoltelle, l’attività di carabinieri e polizia. Casi di esaltazione, determinati anche dall’ampiamento di alcuni incarichi, non furono pochi, si guardi questa foto, scattata da un passante a Roma, sulla Cassia, nell‘agosto del 1980 alle ore 14.15 di sabato pomeriggio; riprende un vigile urbano che, sigaretta tra le dita, maniche rigirate, privo di berretto, invece di dirigere il traffico con l’usuale paletta, punta una pistola ad altezza cuore, ad un autista reo di aver rallentato per osservare cosa fosse accaduto pochi metri più a sinistra. Ma l’abbiamo già detto, il potere logora chi non ce l’ha.
Ricostruzione dei fatti bugie VS verità
Per ricostruire quanto accaduto a Alberta è necessario sfatare una serie di fake che furono diffuse cercando di trovare una giustificazione per gli assassini, come se mai fosse possibile trovare una giustificazione ad un omicidio che non abbia a che fare con l’autodifesa o la difesa di un innocente sotto attacco.
- Aveva scippato qualcuno: ancora oggi aleggia questa convinzione ma non ci fu mai riscontro perché nessuno sporse denuncia e nessuno conosce l’identità della vittima di questa rapina.
- Aveva rubato la macchina: se è vero che la 500 bianca non fosse di sua proprietà, è altrettanto vero che il ventottenne Riccardo Dionisi, il legittimo proprietario della vettura non aveva sporto alcuna denuncia quando, il giorno 9, alle 23.00, aveva parcheggiato in via Manara senza, l’indomani mattina, ritrovarvi il veicolo. Indagando sulla serata della Battistelli, precedente l’omicidio, le forze dell’ordine apprendono da un uomo che circa 15 minuti prima di imboccare via della Paglia, la giovane si fosse rivolta lui chiedendo dove si trovasse via Manara. Tutto ciò porta a due conclusioni: Alberta e Riccardo si conoscevano, Alberta sta andando a restituire l’automobile, forse nemmeno sottratta da lei.
- Aveva forzato il posto di blocco, tra le tante, questa fandonia, è forse la più odiosa di tutte, perchè è quella utilizzata per motivare l’oscenità ed è ripetuta senza il minimo imbarazzo e pudore, a fronte delle dozzine di testimoni presenti quella notte. Alberta non forza il blocco fatto da un vigile a piedi, e uno in moto, in via della Paglia, ma semplicemente lo supera perchè nessuno le intima di fermarsi, lo supera tanto lentamente che, dopo una decina di metri si troverà il vigile davanti al cofano che le urla di fermarsi. Nessuno sa cosa si dicono, il vigile posa entrambe le mani sul cofano, dopo pochi secondi si scansa e la 500 bianca attraversa lentamente l’intera piazza Santa Maria, nel mentre un secondo vigile in moto è scattato raggiungendo un terzo collega. Qui altre due differenti ricostruzioni:
- La versione dei vigili: i due colleghi parcheggiate le moto al limitare finale della piazza, sono in piedi all’imbocco di piazza Callisto; la ragazza, nel tentativo di superarli urta entrambe le moto facendole rovinare a terra, non si ferma e prosegue in piazza
- La versione dei presenti: la ragazza non urta nessuna moto, le due ruote cadono a causa della concitazione degli stessi vigili.
- E’ a questo punto che Butch Cassidy e Billy The Kid danno inizio alla sparatoria. Alberta si allontana da piazza San Callisto e si dirige, contromano, in via San Francesco da Ripa. La 500 sfiora i tavolini di un bar, una breve marcia indietro prima di riprendere il tragitto, la ragazza probabilmente è già ferita. Calamity Jane, il terzo vigile, mette una manetta alla ragazza, salvo allontanarsi per consentire a The Kid e Cassidy, alias Barlocci e Di Leo, di continuare a crivellare la macchina, scaricando gli ultimi proiettili da distanza ravvicinata dal lato, sia dal dietro. Un colpo le oltrepassa il corpo fuoriuscendo all’altezza del seno, l’altro le tronca di netto la spina dorsale, un terzo la ferisce alla coscia. Ultimi due inconsapevoli metri in via Ripa. La macchina si ferma, una giovane apre lo sportello e accoglie incredula tra le sue braccia il corpo esanime della Battistelli.
Epilogo
I due vigili vengono consegnati alla discrezione del giudice Santoloci mentre la corsa di Alberta verso l’ospedale è un tentativo tanto disperato, quanto vano. Da questo momento inizia un carosello giudiziario che troverà la sua conclusione, la peggiore, nel 1989.
Dapprima vengono fermati i due pistoleri in moto, presto si aggiungerà anche il terzo. L’accusa in primo grado è di omicidio volontario, ma si tramuta successivamente in omicidio colposo aggravato, consentendo agli uomini di godere degli arresti domiciliari. Successivamente il campo d’imputazione ha un’ulteriore variazione, diventando omicidio preterintenzionale. Questi due cambi di pendenza mi fanno sorgere delle domande a cui sarebbe interessante avere delle risposte.
Sappiamo che con omicidio colposo si intende quando la morte di un individuo è cagionata dalla negligenza, dall’imperizia e da imprudenza. L’omicidio preterintenzionale è invece quello in cui la morte è causata sì da un’azione di danno volontario, ma che per diverse circostanze, ne causa la morte (es. tiro un pugno, la persona colpisce con la nuca uno spigolo e muore); ordunque quando vi è capitato l’ultima volta di scaricare 21 colpi di arma da fuoco pensando che non sarebbe morta (preterintenzionale), non chiedendosi se sarebbe morta (imprudenza), ignorando che sarebbe morta (imperizia), non preoccupandosi di verificare che non fosse una pistola giocattolo (negligenza).
Mentre noi ci poniamo questi interrogativi, e la giustizia dell’epoca si destreggiava nel preferire eccessi colposi di legittima difesa, omicidi preterintenzionali e quanto possa venire in mente, la perizia della balistica stabiliva che la vettura era stata “investita da un vero uragano di pallottole e che, uno di quei colpi era stato addirittura esploso a trenta centimetri dal corpo dell’infelice Alberta. Quindi probabilmente con la pistola infilata nel finestrino. La pistola era quella di Di Leo, e il suo colpo quello che aveva ucciso la ragazza”.
In appello il rinvio a giudizio parlava di omicidio colposo per eccesso di legittima difesa, legato ad imperizia ed inesperienza. La Cassazione, interpellata per illuminare tutti sulla vicenda, parla di omicidio preterintenzionale (quand’è l’ultima volta che sparando al cuore da 30 cm non avete avuto intenzione di uccidere?).
La richiesta di omicidio volontario, richiesta in primo grado che chiedeva quattordici anni per Di Leo e sette per gli altri due è rigettata dalla Corte che dichiara l’omicidio colposo per tutti e tre: quattro anni ciascuno. Siamo nel 1987 e i tre imputati avevano già scontato la pena ai domiciliari. Alla successiva richiesta di omicidio preterintenzionale, bastano un paio di giravolte e, tornando al colposo il martello batte tre volte, batte la libertà per tutti e tre gli imputati.
Per la giustizia, quella tossica di Alberta, ha avuto la sentenza che le spettava.
RIPRODUZIONE RISERVATA ©