di Salvatore Sechi
La mancata condivisione della sentenza sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980 non deve indurre a pensare che i giudici non si siano attivamente impegnati nelle motivazioni. Hanno perlustrato altri processi, i lavori delle diverse commissioni parlamentari d’inchiesta, gli archivi dei servizi segreti e una selezione (altamente opinabile) della saggistica.
Con una certa spudoratezza hanno considerato opere scientifiche quelle di giornalisti, magistrati e sconosciuti avvocati afferenti all’associazione dei parenti delle vittime. C’è da recarne scandalo?
Avendo fatto proprie in una misura inconcepibile le richieste, le proposte e le narrazioni di quest’ultima (che era una parte in causa) nel motivare le conclusioni giudiziarie coerentemente hanno nobilitato operette da storiografia cominternista (in stile putiniano) e da giornalismo di partito (o se si preferisce di setta) come eccellenze o apporti apicali.
Ovviamente le ragioni della ricerca di esecutori e mandanti e gli interessi al risarcimento dei parenti delle vittime, se la si intende come compensazione delle sofferenze inenarrabili subite, non saranno mai adeguate. Ma dai magistrati si pretende che la loro verità non sia una verità politica, e non sia possibilmente diversa dalla verità storica .
Pertanto altamente controvertibili sono gli argomenti addotti e i modi con cui sono stati fatti valere. Bisogna, però, dire che probabilmente la responsabilità maggiore risiede nella subcultura con cui i media hanno seguito il processo.
Si è vista all’opera una leva di giornalisti, non solo locali ma anche nazionali, che ha avuto come stella polare non quella di informare, ma quella di orientare l’opinione pubblica. Lo hanno fatto in questi quaranta anni, e continuano a farlo oggi, schierandosi sempre ed esclusivamente dalla parte dei difensori legali delle vittime, qualunque siano i loro argomenti
Dalla più scollacciata (La Repubblica e Il Fatto Quotidiano ) alla più sobria (Il Corriere della Sera e La Stampa) si è tenuto l’atteggiamento seguente: dare il massimo rilievo a quanto diceva l’avvocato Paolo Bolognesi in quanto espressione dell’antifascismo unito e tacere o citare ogni morte di papa chi (come G. Pelizzaro, G. Paradisi, A. Colombo, S. Marchese, L. Cavallo M. Del Bue, F. Cicchito, L. Manconi ecc.) sosteneva tesi diverse in quanto rubricate come argomentazioni di fascisti o di loro amici in quanto anticomunisti.
La faziosità presupposta di direttori di quotidiani è di esecrare come antidemocratici, nemici del popolo ecc. , non intervistandoli o non dando spazio alle loro analisi, quanti hanno prospettato interpretazioni diverse dell’orrenda carneficina del 2 agosto nella stazione di Bologna.
Fontana, Molinari, Travaglio e Giannini fanno finta di non leggere le menzogne più oscene che rischiano di fare giurisprudenza. Al fondo nella strage di Bologna ci sarebbe stato il disegno politico, i soldi e le armi degli Stati Uniti e della Nato. In altre parole lo stragismo che ha tenuto unita la mafia e il terrorismo nero era volto a impedire l’accesso al governo del Pci.
Non si chiedono che senso (a parte le piacevolezze del libero sbracarsi da bar) abbia questo argomento/accusa. Esso è l’asse portante delle motivazioni dei giudici bolognesi. Si sarebbe fatta saltare la stazione di Bologna, massacrandone la popolazione in attesa di prendere un treno per le vacanze, al fine di determinare una reazione popolare e dare vita ad un governo militare alleato ai fascisti in grado di garantire l’ordine.
Dunque, i nostri principali alleati avrebbero trescato con settori golpisti dei servizi e delle forze armate, in combutta con la massoneria deviata di Licio Gelli e avvalendosi delle risorse finanziarie di una banca in liquidazione come l’Ambrosiano, per far intendere ai comunisti che la ricreazione era finita?
Ai magistrati (ai quali si deve ogni merito per l’intenso e improbo lavoro svolto) non mi pare sia venuto il dubbio che non avesse il minimo senso questo rovistare la storia d’Italia con in mente il cruccio che a Washington i comunisti non erano amati. Non hanno tenuto presente un piccolo dato statistico: il Pci non ha mai ottenuto la maggioranza dei voti per governare. Detto diversamente, l’elettorato italiano non ha mai mostrato interesse a munire i comunisti del consenso perché conquistassero Camera e Senato, e ricevessero dal capo dello Stato l’incarico a formare un governo, da soli o di coalizione.
Dunque non c’era nessun bisogno che la Cia, il Pentagono, i marines, le centrali atomiche ecc. degli Stati Uniti e dei paesi aderenti alla Nato si mobilitassero. I comunisti italiani non sono mai piaciuti alla maggioranza degli italiani. Essi sono, a modo loro, antifascisti, ma sono anche (fortunatamente) anti-comunisti.
Ernesto Galli della Loggia ha spiegato questo stato di cose sul Corriere della Sera e un liberalsocialista come Mauro Del Bue ha più ampiamente argomentato su La Giustizia.
Galli della Loggia é stato oggetto insulti e di ignobili reazioni viscerali da parte di Fausto Anderlini e del suo blog.Vi trovano una rassicurante siesta quanti a Bologna e in Emilia Romagna non si sono ancora resi conto che il comunismo è stato, sempre e ovunque, un fallimento, ha dato vita a regimi nemici degli operai e dei contadini. Da Lenin in poi hanno provveduto sistematicamente a sterminarli. In Russia come in Ucraina.
C’è da stupirsi se la storiografia da tempo si è chiesta se tra comunismo e fascismo ci siano, dal punto di vista dei diritti, cioè delle libertà dei cittadini, grandi differenze?
Uno dei fondatori del Pci, Antonio Gramsci, dall’inizio degli anni Trenta cessa di chiamare l’Unione sovietica “Stato operaio” e la descrive come un esempio di neo-bonapartismo. Ma da Togliatti a Berlinguer hanno aspettato la caduta del muro di Berlino per rendersene conto.
Gramsci morirà avendo gettato le basi teoriche per definire l’anticomunismo come una domanda del popolo di sinistra.