di Salvatore Sechi
Nell’inverno del 1927, Sraffa tenne, a Cambridge una conversazione al Keynes Political Economy Club, che aveva per tema lo Stato corporativo in allestimento in Italia. A rileggerla si ricava un’idea, consolidata su una scala temporale ampia, della concezione che egli aveva maturato della storia d’Italia, dei partiti politici, nel contesto dei rapporti tra capitalisti e lavoratori (questo lessico è suo).
Non era sicuramente quella di un socialista riformista.
Nel dopoguerra l’obiettivo al centro dei “due opposti ed esclusivi partiti” che rappresentavano gli interessi del capitale e del lavoro fu, a suo avviso, quello di “acquisire il controllo dello Stato“.
Era progressivamente venuto meno fino a saltare “l’equilibrio del governo democratico” che si fondava nel limitare la forza degli interessi per cui si combatteva. In realtà, si era finito per confrontarsi come se si fosse in un vero e propri o “stato di guerra“, in cui ciascuna delle parti si guardava bene del prendere in considerazione, ed entrare nel merito di ogni particolare tema di disputa, valutando “i vantaggi immediati da aggiudicarsi” o le “temporanee sofferenze da sopportare“.
Era diventata una regola quella di non sprecare energie per ottenere successi immediati in “questioni secondarie o di dettaglio”. In questo modo venivano chiamati “i salari o le riforme sociali“. Tutto, dunque, andava concentrato su un conflitto di importanza generale, puntando esclusiva mente sulla vittoria finale che avrebbe determinato la supremazia di una delle due classi intorno a due domande cruciali: “chi comandava nelle fabbriche, chi aveva il controllo dello Stato“.
Tra i capitalisti come tra i lavoratori prevalevano esattamente questi “sentimenti di classe” e questa “concezione di classe dello Stato“.
Lo Stato liberale cercò la mediazione.
I governi liberali cercarono, in questa radicale contrapposizione, di mantenere un atteggiamento di imparzialità per salvaguardare un equilibrio tra destra e sinistra (le due forze che si contendevano il campo). Il risultato fu una incessante politica di concessioni a favore ora di una ora dell’altra classe sociale con la conseguenza di una perdita, tramite rinuncia, “di un po’ dell’autorità dello Stato“.
Di fronte a questa mediazione continua, connessa all’impossibilità di schierarsi interamente da un lato, cioè di fare una scelta unilaterale, a derivarne fu la decisione assunta dalle due più forti e attive sezioni della comunità nazionale di auto-organizzarsi come entità auto-sufficienti.
Si diede, cioè, luogo ad “una separata organizzazione sociale” nel quadro di un fenomeno inedito come quello della separazione dallo Stato: “i datori di lavoro delusi dal non aver ottenuto tutto l’appoggio aperto al quale ritenevano di avere diritto, i lavoratori consapevoli che lo Stato segreta mente aiutava a preparare la reazione fascista a favore dei capitalisti“.
L’instabilità dei governi postbellici Sraffa l’attribuiva alla mancata sanzione della “vittoria completa di una delle classi” sociali da parte delle maggioranze politiche che formarono i governi.
Nel biennio 1922-1924 Mussolini tentò di muoversi su questa strada con un’azione di smantellamento del sistema di restrizioni come la cosiddetta tassazione demagogica (cioè le imposte di successione e la tassa sui profitti delle imprese) e la legislazione di guerra (cioè le limitazioni imposta alla libertà di impresa e le “riforme socialistiche del dopoguerra”.
Sul piano istituzionale vennero prese delle misure più originali e di carattere qualitativo, cioè la sostituzione della concezione liberale e della concezione socialista dello Stato. Venne cioè creato “un meccanismo statale che potesse giustificare ed assicurare la permanenza e stabilità del regime fascista stabilizzando l’equilibrio attuale nelle relazioni tra le classi sociali“.
Lo Stato corporativo.
Si arriva così’ nel 1925-1927 a concepire il meno nebulosamente possibile la formazione dello Stato corporativo.
Esso muove dall’assunzione dell’idea che “gli interessi del lavoro e del capitale, e anche quelli della nazione nel suo complesso, sono identici per quanto riguarda la produzione: quanto maggiore il prodotto, tanto maggiore la quota che andrà ad ognuno, e tanto maggiore la potenza nazionale” .
Separazione e contrasto hanno luogo sul terreno della divisione del prodotto, in quanto si scatena una lotta per una maggiore quota da sottrarre. L’arma usata sarà la maggiore forza contrattuale di cui le singole parti dispongono e quindi la minaccia di sottrarre il proprio contributo alla produzione Tale attrito, se lasciato sviluppare, porterebbe a una diminuzione della produzione e perciò a un danno a carico di tutti degli interessi di tutte le parti.
Per impedire tale frizione, occorre contrastare l’interferenza dello Stato in tale campo e pertanto affidarsi all’iniziativa dell’impresa privata, come prescriveva la Carta del Lavoro dello Stato corporativo.
Lo Stato deve, però, intervenire per governare la distribuzione perché i produttori possano dedicarsi interamente all’aumento della produzione. La soluzione adottata non è la nazionalizzazione dei mezzi di produzione, ma la nazionalizzazione del meccanismo della distribuzione. “Il che implica non solo arbitrato obbligatorio, ma in pratica controllo e direzione dei sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro da parte del governo“(p.126, DeVivo).
Alla fine, Sraffa conclude rilevando che “le corporazioni non sono associazioni di individui, ma dipartimenti governativi: di fatto esse sono sezioni del Ministero delle Corporazioni“.
Dal punto di vista delle funzioni sindacali ordinarie delle organizzazioni corporative, il “fascismo non ha introdotto nulla di sensazionale“.
Di originalità fascista, chiamata rivoluzione, si può parlare per la riforma delle fondamenta dello Stato, con la sostituzione delle organizzazioni corporative ai distretti elettorali, e del produttore al cittadino ed elettore al Parlamento. Dalle linee generali di questa riforma si può essere certi che “il fascismo non correrà grandi rischi in sperimentazioni arrischiate.”
Lo Stato corporativo copre una vecchia dittatura.
Ad avviso di Sraffa, lo Stato Corporativo è un meccanismo elaborato “inteso molto più a dare un aspetto moderno a una dittatura di vecchio stampo, piuttosto che instaurare un nuovo sistema di governo rappresentativo i vuole dare l’impressione che la dittatura sia indipendente dagli interessi settoriali, che essa sia un tentativo benintenzionato di governare paternalisticamente un popolo arretrato non adatto a un governo democratico o almeno che, se esso è oppressivo, il suo peso cada egualmente sulle diverse sezioni della comunità“.
Su questo punto, Sraffa si dedica ad un esame ravvicinato di alcuni dettagli della legge sul le relazioni tra capitale e lavoro e sulla organizzazione sindacale. Colpisce gli scioperi, qualunque sia la motivazione, e ammette, invece, la serrata, punendola solo quando essa sia fatta “senza adeguato motivo“.
Ma si tratta di un inutile formalismo dal momento che se gli scioperi sono proibiti, le serrate non hanno ragion d’essere. In secondo luogo, i datori di lavoro, senza ricorrere alla serrata, possono rompere gli accordi collettivi non ritenuti convenienti, e contro di loro l’associazione dei datori di lavoro non può prendere misure disciplinari, se mai le volesse fare. Ottenere qu esto risultato è impossibile per i lavoratori, in quanto non possono scioperare.
Sono, infatti, gli stessi sindacati fascisti a lamentare che in molti casi i datori di lavoro riescono ad eludere le clausole degli accordi, ed essi non hanno mezzi per costringerli a rispettarli. In sintesi Sraffa ritiene che la differenza fondamentale tra datori di lavoro e lavora tori risieda nella natura stessa delle loro rispettive organizzazioni.
Le associazioni dei datori di lavoro sono genuinamente volontarie, fondate liberamente nel pre-fascismo, e ai loro vecchi nomi hanno aggiunto semplicemente la parola fascista.. Infatti essi si auto-governano in modo democratico, i loro rappresentanti sono eletti con i voti dei soci, e per fare un contratto collettivo o per qualsiasi altra decisione importante è richiesta la sanzione dei membri.
Esattamente il contrario si verifica per le organizzazioni dei lavoratori. Il primo passo del fascismo fu quello di distruggere i sindacati liberi esistenti. Col riconoscimento ufficiale dei sindacati fascisti, i vecchi sindacati sono stati dichiarati illegali e sciolti, e il loro patrimonio è passato ai sindacati fascisti. I lavoratori sono stati costretti ad aderire ai sindacati del regime, il che veniva fatto dai datori di lavoro al momento della loro assunzione.
Malgrado questi incentivi, gli iscritti ai sindacati fascistizzati sono circa due milioni mentre nel 1920 erano tre milioni e mezzo gli iscritti ai sindacati prefascisti.
I sindacati fascisti: un’imposizione del regime.
I sindacati fascisti non si possono definire dei sindacati, ma sono solo un’organizzazione imposta ai lavoratori per tenerli sotto stretto controllo.
Gli iscritti non partecipano alle decisioni in materia di tattica o di accordi salariali, né eleggono i funzionari o i comitati esecutivi. A farlo alla testa delle sei grandi confederazioni è il presidente della Confederazione generale dei Sindacati come delle federazioni del commercio, e delle federazioni provinciali.
Secondo Sraffa la domanda importante da farsi è “se il fascismo è un prodotto anormale della psicosi post-bellica, che si attaglia solo sulle condizioni locali italiane, o se esso rappresenti un risultato logico ed inevitabile delle moderne società industriali. L’opposizione democratica nel primo periodo del fascismo ha preso la prima posizione ed è stata in fiduciosa attesa della caduta del fascismo, che avrebbe dovuto realizzarsi appena la gente fosse rientrata in sé”
Il fascismo sarebbe a quel punto passato senza lasciare tracce permanenti, tutto sarebbe tornato al sistema liberale, e l’ordine naturale delle cose sarebbe tornato esattamente quello dei vecchi tempi”.
Ma se il fascismo “effettivamente ha rappresentato l’ultima linea di resistenza su cui l’ordine sociale attuale deve ricadere al fine di difendersi contro gli attacchi del lavoro organizzato, se in effetti esso è l’unico metodo per consolidare le basi del capitalismo quando esso abbia raggiunto uno stadio in cui non è più possibile conservarlo senza rompere le forme della democrazia politica-allora gli sviluppi del fascismo avranno molto maggiore interesse in quanto essi rap presentano forse un’anticipazione dei risultati cui il capitalismo può portare negli altri paesi“.
Sraffa si sottrae ,però, a schematizzazioni come quelle di Gramsci e dello stesso Angelo Tasca. Essi avevano attribuito al fascismo la sconfitta del movimento operaio l’obiettivo di centralizzare il negoziato tra capitale e lavoro con un’opzione per gli interessi monopolistici. Sraffa, invece, nella discussione avviata con Angelo Tasca su Stato Operaio, non nega che nel breve periodo la preoccupazione di Mussolini fosse quella di conquistare il consenso dei ceti intermedi e di settori della stessa classe operaia.
Tra Sraffa e la leadership comunista ci fu una scarsa coincidenza che si può rilevare sulle loro posizioni sul fascismo come sulla strategia antifascista per abbatterlo.
Anche se l’abitudine è di spacciarle per identiche (anzi per scontate) fino alla prima metà degli anni Venti sono sensibilmente differenziate, se non contrastanti.
Nota bibliografica
Il saggio di Piero Sraffa sul corporativismo, e lo scambio di lettere tra Sraffa e Angelo Tasca su “Stato Operaio” sono rinvenibili in appendice al volume di Giancarlo De Vivo, Nella bufera del Novecento, Castelvecchi, Roma 2017.
Per una discussione su di esso si veda il seminario dell’Associazione per il rinnovamento della sinistra, Sraffa politico. Alcuni inediti. Relazioni di Marcello De Cecco Quota 90 ;Andrea Ginzburg, Lo Stato corporativo; Nerio Naldi, Nell’Italia fascista degli anni ’20,e interventi di Pierangelo Garegnani e Aldo Tortorella.
Si vedano diversi saggi( in particolare quelli di A. Gagliardi, A. Borelli, B. Settis, F. Giasi e S. Pons) dell’importante raccolta curata da Paolo Capuzzo e Silvio Pons, Gramsci nel movimento comunista internazionale, Carocci, Roma 2019,Claudio Natoli, La Terza Internazionale e il fascismo 1919-1923, Editori Riuniti, Roma 1982; M. Taber edited by, The Communist Movement at a Crossroad , Brill, Leiden-Boston 2018;GiuseppeVacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci, Einaudi, Torino 2014; Crisi e rivoluzione passiva. Gramsci interprete del Novecento, a cura di Giuseppe Cospito, Gianni Francioni e Fabio Frosinoi, Ibis, Como-Pavia 2021.: Riccardo Bachi, L’Italia economica nel 1919, pp. V,VIII e IX, l’affresco ricchissimo di Pierluigi Ciocca, Ricchi per sempre., Bollati Boringhieri, Torino 2020.
Si ringraziano per la collaborazione Nerio Naldi(dell’Università di Roma) ed Enrico Pontieri (della Fondazione Istituto Gramsci di Bologna).