Charles III è Re, incoronato nella antica, lunga e rituale liturgia celebrata ieri tra le imponenti navate di Westminster.
A ben vedere la solennità di Carlo è un po’ pallida rispetto a quella fiera e intrisa di regalità con la quale Elisabetta II, ben 70 anni fa, indossò la Corona di Sant’Edoardo, ma evidentemente il sangue che scorre nelle vene di Carlo è annacquato da quello levantino del padre Filippo rispetto a quello severo e tedesco della madre.
Sì, avete capito bene, tedesco, tedesco.
Perché non lo sapevate?
I Windsor non sono inglesi, sono tedeschi e la loro è una dinastia virtuale.
Le ultime famiglie inglesi che hanno regnato sull’Inghilterra furono i Tudor, estintisi nel 1603 con la morte di Elisabetta I che non lasciò eredi, e successivamente gli Stuart, che si sono estinti nel 1701 con la morte di Giacomo II, anch’egli senza eredi.
A quel punto il parlamento inglese, che già da tempo contava parecchio, decise di offrire il trono di Albione agli Hannover, tedeschi e protestanti-luterani, al fine di scongiurare che la corona inglese finisse in mano a qualche Re cattolico. E fu così che da Giorgio I la monarchia britannica ha iniziato a parlare la lingua di Beethoven e di Wagner, anche con la grandissima Regina Vittoria la quale non contenta riaffermò il sangue germanico sposando un Sassonia-Coburgo-Gotha (Alberto cui è dedicata la attuale Royal Albert Hall) che divenne il cognome ufficiale della dinastia regnante inglese.
Anche di Re Giorgio V, (che era mezzo tedesco e mezzo danese e aveva sposato Maria di Teck di origine tedesca), nonno di Elsabetta II e bis-nonno di Carlo.
Con un editto del 1917, però, Giorgio V interpretando i fortissimi sentimenti anti-tedeschi degli inglesi, per via del conflitto mondiale, modifico il nome del casato abrogando quello di Sassonia Coburgo Gotha e trasformandolo in Windsor nome preso dal noto castello tanto amato da Elisabetta II.
Al di là delle spiluccature storiche, che però fanno sempre bene, l’evento è utile per aprire una riflessione sul rapporto tra socialismo, anzi, tra socialdemocrazia e monarchia.
I socialisti italiani spesso vivono di luoghi comuni, per esempio che la sinistra sia una e indivisibile, come un fronte compatto, oppure che il socialismo sia repubblicano.
Seguitemi nel ragionamento. Al termine della guerra essere repubblicani, in Italia, era una conseguenza logica e naturale, per le pagliacciate di Vittorio Emanuele e le sue connivenze fasciste e, anche se Umberto I (il figlio) era molto vicino ai socialisti e la Regina Maria Josè votò Saragat per l’Assemblea Costituente, la posizione di Nenni: “o Repubblica o il caos” aveva una sua logica, storica e politica, esatta e compiuta. A parte la considerazione che i comunisti invece furono molto tiepidi sulla questione (e avevano più volte timidamente manifestato che a loro non sarebbe spiaciuto conservare la monarchia) quella espressa da Nenni era però una posizione dei socialisti italiani.
Guardatevi attorno. Non avete fatto caso che il movimento della socialdemocrazia, in Europa e dal dopoguerra, ha avuto un maggior terreno fertile per attecchire in maniera più duratura e incidere in maniera più profonda, nel suo processo di riforme, in paesi a guida monarchica piuttosto che in quelli a guida repubblicana?
Pensate a Felipe Gonzales, e poi a Zapatero e oggi a Sanchez, pensate al laburismo di Blair, pensate a Olof Palme, pensate alle stagioni del socialismo Belga, Olandese o Danese.
Contemporaneamente, tranne brevissime parentesi, tra Roma, Parigi e Bonn era tutt’altro andazzo.
E secondo voi i movimenti socialisti che hanno governato in quei paesi dalla Spagna ai paesi scandinavi passando per Bruxelles e Londra si sono mai sognati di pensare o tramare di rovesciare la monarchia?
Ma quando mai.
Il perché di questo fenomeno non so spiegarlo.
A qualcuno potrebbe far ridere la adozione, ancora oggi, di quegli orpelli che a volte sembrano stucchevoli mascherate o barocchi rituali.
Ma in Inghilterra quei riti, che si sono perpetuati nei secoli, sono serviti a mantenere intatta la forma costituzionale e l’assetto democratico di cui quel paese ha vissuto.
Quelle liturgie sono servite a dare alle istituzioni britanniche una autorevolezza tanto grande da entrare nelle coscienze delle popolazioni e rimanere intatta alle intemperie della storia che hanno devastato lo scorrere dei secoli.
La sacralità della corona si è estesa alla sacralità dello stato e nulla avrebbe mai permesso e mai permetterà di rovesciarla.
Dittature e dittaturelle, avventurose o meno che fossero, quali quella che hanno devastato i primi anni del Novecento, non avrebbero mai potuto, da quelle parti, non solo affermarsi ma addirittura trovare un minimo spazio proprio per la concezione di sacralità della guida costituzionale del paese.
Quel senso delle istituzioni ha anche sviluppato una fortissima identità nazionale mescolata in una osmosi inscindibile con il rispetto dei suoi simboli in quanto identificativi della sacralità dello stato.
Non è un caso se da quelle parti ogni evento, formale o informale, istituzionale o ludico che sia, è concluso dall’inno nazionale e non è un caso che, ovunque ci si trovi, qualunque sia l’occasione o lo scenario, tutti, ma proprio tutti, dagli anziani ai maturi, dai giovani ai ragazzini, si mettono in piedi e cantano con compostezza e raccoglimento.
Si chiama solennità
Necessaria per mantenere alto il senso delle istituzioni e trasmetterne il rispetto tra le persone.
E ovunque in ogni stato, popolo, comunità, religione, la solennità è sempre stato il laticlavio con il quale ammantare di sacralità i simboli costituzionali in una sorta di iconolatria delle istituzioni.
Ma da loro è diverso, è più forte. Del resto, sulle bianche scogliere di Dover iniziarono a masticare la parola democrazia nel 1215, con l’adozione della Magna Charta, e più tardi, quando in tutta Europa andavano di moda le monarchie assolute e ovunque si imitava Louis Quatorze, le Roi Soleil, quello della famosa frase “l’état c’est moi”, dalle parti di Albione scoprivano l’importanza del parlamento e nel 1689 adottavano il Bill of rights che trasformava la corona inglese in una monarchia parlamentare riconoscendo una centralità delle assemblee nella guida politica e costituzionale dello stato.
È molto probabile che la stabilità delle istituzioni incoraggi i popoli ad accettare e affrontare le stagioni di profonda riforma della società che la politica propone.
Una cosa è però certa e lasciatemela dire: in Inghilterra non cantano l’inno solo allo stadio e nelle aule parlamentari non si sognano minimamente di introdurre apriscatole e scatolette di tonno da III C in gita scolastica.
Noi, una sollenità come quella inglese, o delle altri grandi monarchie europee, non l’abbiamo più. L’abbiamo persa quando una mano giustizialista e nemica ha cancellato la prima repubblica, una mano che si è profondamento pentita.
God save the King.
2 commenti
Su questa cosa, lo sai, non saremo mai d’accordo. Le monarchie sono ormai pantomime spesso verminose e in nulla hanno contribuito alla crescita culturale e sociale in epoca moderna, se non a garantire redditi spropositati a parassiti con nessun merito o competenza, pagati con le tasse di tutti. E se proprio devo citare qualche esempio negativo, per non urtare suscettibilità oltre confine, mi fermerò alla vergogna mondiale dei Savoia in Italia.
I sovrani illuminati non esistono e non sono mai esistiti in quanto la loro stessa esistenza è illogica rispetto a qualsiasi assetto democratico filosoficamente compiuto. L’idea stessa di “concedere” elezioni, parlamenti e quant’altro, che derivava da uno status, sia pure funzionale a simboleggiare un assetto istituzionale, ma comunque “superiore”, è incompatibile con qualsiasi visione egualitaria. Di più arcaico e assoluto esiste solo il papato. Infatti, e non per caso, King Charles è anche capo della chiesa anglicana. Inoltre tutti gli statuti e le costituzioni delle monarchie democratiche (chiedo venia per il paradosso ma tant’è…) Sono state ottenute con la forza. E tralascio le conseguenze collaterali del colonialismo i cui danni scontiamo ancora oggi. Per cui no grazie. E sempre viva il 4 e il 14 di luglio!
Trovo piuttosto interessante questo articolo che, anche attraverso eloquenti tuffi nel passato, porta esempi concreti di come più d’una democrazia europea continui a vedere nella propria monarchia l’espressione della unità e della identità nazionale, una identità che altri, senza più monarchi sul trono, vanno presumibilmente cercando col premiare i cosiddetti partiti sovranisti (ossia un eguale obiettivo pur con vie differenti).
Riguardo alle monarchie c’è chi può pensarla come Giulio, o suppergiù, ma non sottovaluterei comunque il sentimento identitario che pare stia viepiù emergendo nel Vecchio Continente, ancorché faccia storcere il naso a chi opta invece per veder nascere gli Stati Uniti d’Europa, sulla falsariga di quelli al di là dell’Atlantico, i quali hanno però tutt’altra storia rispetto a quanto avvenuto per secoli su questa sponda dell’oceano.
Gli USA, peraltro, dopo la guerra d’indipendenza di fine Settecento, scelsero di darsi una repubblica presidenziale, nella quale la figura del Presidente risultasse unificante per l’intera nazione, e ne fosse il simbolo, insieme alla bandiera, al cui cospetto ci si comporta con grande e corale solennità (se anche nel Belpaese si arrivasse al Presidenzialismo potremmo forse riscoprire un “collante” andato perdendosi nel corso degli anni).
Paolo Bolognesi 07.05.2023