Di Marco Andreini
Considerato che il pezzo su sindacato e salari è stato apprezzato dal direttore, non farò come il grande mio corregionale che non ripeteva mai e provo a spiegare perché una volta era quasi più affascinante per un giovane che voleva cambiare il mondo lavorare nel sindacato, invece che entrare in un partito.
Provate a immaginare un mondo dove ai centri studi lavorino le più grandi menti del paese, Giuliano Amato al centro studi CGIL, con uno stuolo di sindacalisti come Lettieri, Giovannini, Sclavi, Marcenaro, Cazzola intellighenzia proveniente dal movimento del ‘68 nella CISL, passando da Gino Giugni a D’Antona, Tarantelli e tantissimi intellettuali provenienti dal mondo cattolico. La storia vuole però che a 20 anni scelgo la UIL, diciamo così, ma questa è un’altra storia.
È la UIL di Giorgio Benvenuto, quello che va a Bontà loro, primo Talk show televisivo menando scandalo fra i puristi del sindacato, quello che da Costanzo va a dire che in fabbrica circola la droga, altro scandalo, quello che dice, e purtroppo era vero, che in molti Consigli di fabbrica c’erano simpatizzanti delle Bierre.
Non contento Giorgio ruppe nuovamente il fronte lanciando la grande idea del sindacato dei cittadini, e qui lo scontro fu frontale. Si trasmetteva del sindacato una fotografia ben diversa dall’icona immacolata che il Pci, ma anche il Psi avevano del movimento .
E con Lama e Carniti si cercò in una famosissima assemblea all’Eur di diecimila delegati di inventare una strada nuova per il sindacato. Purtroppo molti di costoro, fra i quali il sottoscritto, si ritrovarono a Firenze alla chiesa dei Carmelitani, pronti a contestare quella svolta che consideravamo reazionaria e troppo allineata con il governo di Solidarietà nazionale.
Paradossalmente la fine di quel governo, si portò dietro anche il sogno per il quale lavoravano tanti di noi, quell’ unità dei lavoratori che sembrava a un passo. Mille pensieri e ricordi scorrono nella memoria ma su uno in particolare mi voglio soffermare.
Siamo nel 1980, avevo 23 anni e da poco lavoravo in un cantiere navale che costruiva cacciamine. Era in atto a Torino la grande lotta della Fiat. Erano parecchi giorni, che la lotta andava avanti, tutti sapevamo che era una partita decisiva, i compagni torinesi erano stanchi e tutto il sindacato nazionale era mobilitato per dare una mano.
Ricordo che presi un giorno di ferie, ero ancora in prova e con tutti i delegati delle fabbriche spezzini andammo in autobus a Torino. Dovevamo fare i picchetti per non fare entrare la gente. Mi ricordo che ci mandarono al Lingotto.
Fu una esperienza per molti traumatizzante e ne fui sconvolto. Mi domandavo quale diritto avevo di impedire a un lavoratore di entrare nella sua fabbrica. Certo, pensavo, è un crumiro, sta con il padrone, ma erano davvero tanti ed infatti il giorno dopo ci fu la famosa marcia dei 40mila e siccome lo so, perché l’ho sentito da Giorgio, appena al tavolo si seppe del grande successo della marcia Lama disse a Romiti: le firmo quello che vuole, abbiamo perso, è finita.
I responsabili di quella sconfitta furono tanti ma due in particolare avrebbero almeno dovuto imparare qualcosa. I loro nomi? Il capo della Fiom Sabatini e il segretario del Piemonte CGIL, un certo Fausto Bertinotti.
Ho voluto proprio ricordare questa drammatica sconfitta perché ho la netta sensazione che il Sindacato abbia perso quella consapevolezza che avevamo noi in quegli anni e che ci avevano insegnato in quelle scuole di vita.
E cioè di non essere solo megafono della gente, ma di ascoltare le loro richieste e trasformarle in proposte concrete. Di non prendere solo le informazioni date dall’azienda, ma confrontarle con quelle del gruppo nazionale e internazionale.
Non era la politica a fare la politica industriale. La facevamo noi, la creavano perché avevamo delegati ingegneri che determinavano nelle loro aziende le scelte strategiche. Alla Fiera di Genova organizzammo come Uilm una grandissima conferenza a cui parteciparono tutti i gruppi dirigenti delle partecipate di stato, altro che Cassa depositi e prestiti.
E non ci sarebbe stata nessuna Rimini ‘82, se non si fosse preparato il terreno nelle fabbriche. Martelli non avrebbe potuto parlare di meriti e bisogni se non ci fossero stati prima e dopo migliaia di accordi integrativi, pensati e voluti da quella parte di sindacato che aveva compreso la lezione, ma non sapevamo ancora che ci sarebbe capitato ben di peggio. E cioè San Valentino 84, ma anche questa è un altra storia .
In quegli anni il sindacato non finiva in prima pagina solo per i politici che ospitava, ma ci finivano i testi delle piattaforme nazionali di chimici e meccanici che venivano elaborate, discusse e votate in tutte le fabbriche, anche le più piccole e passavamo da assemblee con 1000 persone a spogliatoi con dieci persone, ma dovevamo informare e fare votare tutti.
E le aziende che conoscevano la nostra forza contrattuale ci tenevano continuamente informati, altro che non ne sapevamo niente e l’azienda ha deciso da sola.
Non avevamo Internet, ma telefoni e telex e se ad esempio in Svezia la Abb. Asea Brown Bowery, 200.000 dipendenti, avesse deciso qualcosa circa i suoi stabilimenti in Italia lo sapevamo al volo. Altri tempi, vero, ma ciò che conta rimane invariato e quello che conta per un sindacalista è sempre sapere quello che accade o può accadere nelle aziende che deve seguire e provo una terribile tristezza quando qualcuno mi dice che ha chiamato il sindacato gli ha risposto un disco.
Quel disco è la fotografia di quel 18% di fiducia che hanno oggi gli italiani nei confronti del sindacato, poco sopra il 17% nei confronti dei partiti, e tanta parte della crisi della sinistra nasce da qui.