Strano modo di ragionare quello di Elly Schlein. Lei dice di essere sempre stata contraria al Jobs act (come aveva detto di essere personalmente favorevole alla maternità surrogata) e dunque aderisce al referendum di Landini. Un attimo. Elly è segretaria di un partito politico che il Jobs act ha voluto e votato all’unanimità. Che lei personalmente sia stata contraria non cambia di una virgola il problema. Da quando la Schlein è segretaria del Pd non c’entrano le sue convinzioni personali. Lei parla a nome del Pd. E se su una questione ora non al centro dell’attenzione e dell’attività del parlamento, come la maternità surrogata, le posizioni possono anche essere il risultato di sensibilità etiche differenti e rispettabili, la Schlein non può non considerare che una sua adesione al referendum di Lanidini per la cancellazione del Jobs act sia una scelta politica impegnativa per tutto il partito. E se così è non solo Elly è in contrasto col più recente passato del suo partito, ma dovrebbero pentirsi e cospargersi il capo di cenere coloro che il Jobs act hanno elaborato e votato in Consiglio dei ministri, a cominciare da Franceschini, Orlando e Delrio, e poi tutti i deputati e i senatori del Pd. Un generale autodafè in stile seicentesco. Una purificazione delle anime a causa di una misteriosa e tardiva rivelazione del nuovo segretario. Poco importa che il Jobs act, pure monco di quella seconda parte che avrebbe dovuto sorreggere la prima nel solco di quella flessibilità garantita a cui la legge giustamente si ispirava, abbia contribuito a creare un milione di posti di lavoro, che abbia incrementato il lavoro a tempo indeterminato, che abbia ricoperto di sostegni sia pur minimi i lavori che prima non erano assolutamente protetti, poco importa a Schlandini o a Contini. Del Jobs act si parla solo in riferimento all’articolo 18. Un tabù che per primo il suo estensore Gino Giugni si era impegnato a correggere nella conferenza di Rimini del lontano 1982 perché i 15 dipendenti oltre il quale l’articolo 18 scattava diventava un limite invalicabile per le assunzioni. E perché il mercato del lavoro è profondamente cambiato dal 1970 e stava gia cambiando agli inizi degli anni ottanta. Si è passati da un paese macro industriale a un paese al 95% costituito da piccole e medie aziende. E dunque anche dal punto legislativo bisognava parlare a lavoratori che sono impegnati in attività non sempre garantite, con contratti non sempre sottoscritti alla luce del sole, a tempo parziale e ridotto. Lo scopo del jobs act era quello tendente a creare le condizioni di un contratto unico, come ha sempre suggerito Pietro Ichino, tra lavoratori gsrantiti e non garantiti e un passo importante in questa direzione è stato fatto. Alla flex security serve poi un adeguato periodo transitorio di formazione garantita e questo ancora non è stato suffientemente messo in atto. Ma il giudizio complessivo sul Jobs act dei giuslavoristi riformisti è positivo. Vedremo cosa succederà dentro il Pd adesso, dopo l’intervista di Bonaccini in cui il governatore dell’Emilia-Romagna invita il suo partito a concentrarsi nella raccolta delle firme a sostegno della legge sul salario minimo e a lasciar perdere il Jobs act. La Schlein farà marcia indietro? O continuerà a formulare opinioni personali a nome del Pd? Farà la segretaria del suo partito o resterà Schlandini?