Apparecchieresti la tavola senza sapere cosa servirai per cena? Si può fare, ma è rischioso: ti aspetti la solita pastasciutta e poi ti capita il passato di verdure che straborda dal piatto piano e con la forchetta non riesci proprio a mangiarlo. È quello che succede quando ci scervelliamo studiando il miglior contratto di lavoro, invocando i diritti del lavoratore, senza conoscere il mondo del lavoro.
Turati e l’Inno dei lavoratori
Oggi, 27 marzo, ricorre l’anniversario della prima esecuzione pubblica dell’Inno dei lavoratori, composto da Filippo Turati. A causa della compresenza con una manifestazione, Agostino de Pretis che, abbandonata la sinistra storica era nel pieno del suo furore trasformista volto ad arginare le ali estreme del Parlamento, emise un divieto che fece anticipare la data d’esordio dell’inno, noto anche come Inno del Partito Operaio Italiano, dal 28 marzo al 27. L’esecuzione si tenne a Milano presso il salone del Consolato operaio, ad opera della Corale Gaetano Donizzetti, testo di Filippo Turati, composta da quartine di ottonari, musica di Zenone Mattei.
Riascoltando il brano, ho realizzato forse per la prima volta, quanto sia rappresentativo di quell’epoca, delle sue criticità ed esigenze; dai versi emergono le sofferenze e le condizioni in cui vertevano sia il bracciante nella realtà rurale, sia l’operaio nel suo contesto urbano. È un inno carico di significato ma che non rappresenta, sotto nessun aspetto, la realtà e la condizione contemporanea rispetto al mondo del lavoro. È un inno che richiede di essere riscritto.
Immaginario e realtà
Da anni ci si affanna ricercando e applicando formule contrattuali e retributive più tutelanti che, data la situazione fattuale, non sono riuscite nel proposito di sanare e di stabilizzare la condizione del lavoratore, sempre più svilito e mortificato, con la scontata conseguenza di una popolazione demoralizzata e arrabbiata, che non ha speranze né obiettivi ma un unico pensiero: la sopravvivenza.
Fa sorridere quanto siano stridenti gli inviti avanzati da stampa e dai vari esecutivi e la reazione dei destinatari; oggettiva dimostrazione del divario tra auspicio e realtà. Prendiamo ad esempio la green economy, con tutta la tematica del vivere nel rispetto di ambiente e sostenibilità. Gli atteggiamenti e i prodotti che le persone dovrebbero adottare e consumare, sono sostenibili ecologicamente ma non economicamente: i cittadini vengono invitati (quasi colpevolizzando chi non si attiene) a consumare alimenti biologici, Km 0; a optare per il mercato equo e solidale, a cambiare l’approvvigionamento energetico, ad acquistare abbigliamento non sintetico etc (per approfondire qui).
Non esiste genitore che non preferirebbe garantire al figlio la miglior alimentazione; tuttavia il petto di pollo o il pomodoro biologico costa il doppio di quelli imballati in chilometri di plastica e polistirolo di Penny, Lidl, Eurospin etc. “Eh però certe cose le puoi coltivare nell’orto o comprare negli shop km 0 che vendono tutto sfuso“. Ma certamente! Siamo tutti impazienti. dopo 8 ore in tessitura di tritare chiolometri alla ricerca dello shop che vende sfuso desiderosa di pagare 3 olive 14 euro, tornare a casa, accertarsi che i figli abbiano fatto i compiti e siano ancora vivi, cucinare, rigovernare, mettere i pargoli a letto così da poter finalmente trascorrere la magica nottata tra torba e terra, curando l’orto insieme all’ “amico peloso“, amato più della prole, per accogliere l’alba con il saluto al sole. Come diceva Pierino “col fischio o senza?”
Altro esempio valido è rappresentato dalle esortazioni alla maternità; come se un contributo di poche centinaia di euro possa risultare tanto allettante, da stimolare una famiglia a mettere al mondo figli. Sono moltissime le coppie che rinunciano, nonostante il forte desiderio, a diventare genitori. Rispetto a quella di inizio 1900, la nostra società ha subito mutamenti profondi che vanno dai consumi ai costumi, dagli ideali alle aspettative. Sono rare le persone che accettano l’idea di dare alla luce una creatura che vivrà all’insegna della privazione.
“Eh ma i miei nonni…” ma chi se ne frega dei tuoi nonni, era un’altra epoca, un’altra società, un altro parametro del concetto di esistenza dignitosa. “Eh ma in Pakistan i tappeti… i bambini…” Ma vai a cacare tu, il Pakistan e i tappeti… Se ragioniamo per massimi sistemi tutto vale tutto, quindi niente. La classe dirigente e le forze politiche italiane hanno l’imperativo di sanare la situazione del Paese, il che non significa fregarsene del resto, ma a furia di divagazioni e voli pindarici siamo arrivati sulle lune di Giove e non è servito a nulla.
Un settore in costante mutamento
Torniamo al lavoro. Nel giro di pochissimi anni abbiamo potuto osservare la nascita di molteplici nuove professioni, in larga parte risultato del genio di cittadini bisognosi di reagire alla disoccupazione causata dalla crisi economica e a tutte le ulteriori conseguenze annesse alla stessa.
Noi italiani deteniamo il primato dei vizi e l’arte del trovare scappatoie; non è un caso che nel mondo, alla parola Italia, gli stranieri aggiungano in automatico “bella vita”. D’altro canto possiamo vantare la rara e non scontata qualità che ci garantisce da sempre la salvezza: l’inventiva, la creatività che, detta in parole povere altro non è che l’arte di arrangiarsi (tipica dei paesi segnati da instabilità politica), quella competenza che nel curriculum indichiamo con la formula “problem solving”.
Anche il mondo della politica è composto da italiani. E’ singolare che in questa sfera non vengano sfruttate le armi dell’inventiva e della creatività. L’atteggiamento sostenuto finora, nell’approccio alle problematiche del settore lavorativo e occupazionale, si è dimostrato miseramente fallimentare. Adeguare e rattoppare formule vecchie rispetto a lavori nuovi, è chiaramente deleterio. Le neonate professioni non sono espressione di novità dal punto di vista del prodotto o del servizio offerto; lo sono parimenti nella struttura, nella mentalità e nel metodo.
È proprio il metodo che deve assumere ruolo preminente, volto all’elaborazione e alla produzione di analisi e indagini di rilevante valore innovativo del concetto di lavoro, e di ogni sua ramificazione. La formula contrattuale e la remunerazione, non rappresentano invero il punto di partenza ma, piuttosto, quello di arrivo. Sono le domande che ci poniamo il capo della matassa; da queste devono scaturire le possibili soluzioni applicabili.
L’ora della riforma
Nel lavoro descritto da Turati nell’Inno dei lavoratori, i settori e i livelli societari erano ben differenziati e definiti. Il mondo di oggi ci invita a una sempre più alta interdisciplinarità che, ritengo, prima o poi sarà necessario tradurre e rendere non eccezione ma prassi, anche all’interno dell’organo legislativo, a partire dalle commissioni.
Non possiamo immaginare una riforma del lavoro che non muova a sua volta da una riforma della scuola, una vera riforma della scuola da cui, in maniera quasi naturale, scaturisce una riforma dei trasporti, delle telecomunicazioni, della pubblica amministrazione, e così via. Certo è un obiettivo titanico, ma il riformismo non consiste nel promulgare una o più leggi, bensì nel riformare una società, e la nostra società è immobile perché vetusta.
Esempi e spunti per una riflessione
Ai giovani è richiesto di studiare fino ai 18 anni, con l’obiettivo che le future generazioni abbiano come titolo di studio minimo il diploma. Se lo stato vuole generazioni di diplomati, dovrà attrezzarsi al fine che questi trovino effettivi sbocchi lavorativi.
La richiesta di alternanza con il mondo lavorativo non può costituire la scorciatoia per fornire lavoratori-schiavi al mondo all’imprenditoria, ma deve generare competenze reali e certificate (ho avuto uno studente all’istituto turistico che schiacciava per ore, al totem digitale, i menù di McDonalds per i clienti. Skills sviluppate? Polpastrello dell’indice destro potenziato), altrimenti è una pretesa ingiusta, atta meramente a sventolare un dato statistico nei consessi internazionali.
D’altro canto bisogna interrogarsi sul destino dei molti che, anche tra i giovani, sono in possesso della sola licenza media, dal momento che per fare il portalettere lo Stato italiano chiede il minimo di un diploma con valutazione che superi i 70/100, oppure la laurea con voto minimo di 102/110.
Possibili interrogativi
Concludo questa parte, che sto trattando solo per esemplificare quanto sostenuto, con alcuni interrogativi rivolti al sistema universitario. I report internazionali dei giorni scorsi hanno confermato che, in Italia, le eccellenze sono detenute dagli atenei pubblici, il che è naturalmente un’ottima notizia che conferma un classico del nostro paese, come dimostra anche il settore della sanità.
Perché, allora, i laureati nelle università private trovano collocazione lavorativa, nell’ambito di studio selezionato, in percentuale nettamente superiore? Qual è il motivo che spinge il settore imprenditoriale e industriale a stringere accordi con maggior facilità e frequenza con atenei privati? Come può essere invertita questa tendenza, dando quell’effettiva parità alla partenza a cui tanto teniamo?
Quale criticità ha determinato l’attuale difficoltà, per uno studente che ha le capacità e l’interesse, di accedere ai dottorati, quindi alla ricerca? Oggi giorno un potenziale ricercatore si trova nella condizione di poter accedere al dottorato solo a proprie spese o all’estero (dove poi rimane, dando contributi solitamente di grande rilievo ad altri stati) a causa della scarsità delle posizioni dove è garantito l’assegno di ricerca.
Per quale motivo molti cervelli, che non hanno la forza economica di finanziarsi il dottorato devono rinunciare, nella speranza di trovare un part-time come commesso o rappresentante di aspirapolveri? Dove bisogna intervenire? Non vi è giustizia sociale dove la partenza non è la medesima. Chi vuole il fine deve volere i mezzi. Gli italiani li vogliono i mezzi, e le forze politiche hanno l’obbligo di trovare il modo di procurarglieli.
La dignità del lavoratore
Cambiando contesto. Rientrando nella generazione a cui undici anni fa Elsa Fornero disse di non essere choosy, che “l’importante è lavorare” non voglio sentirmelo dire, o meglio: accetto che mi venga detto se, di converso, non mi viene richiesto di studiare, se non viene esaltata l’importanza del titolo e sventolato il principio del merito. Quante volte abbiamo visto reazioni indignate, da parte delle masse, nei confronti di giovani iscritti alle agenzie del lavoro, che hanno rifiutato impieghi (generalmente anche mal pagati) come manovale, operatore ecologico, addetto alle pulizie, operaio di fabbrica etc?
Gli unici che hanno diritto di indignarsi, e ben hanno fatto a rifiutare, sono la miriade di ragazzi a cui è stato praticamente imposto lo studio, a cui hanno fanno covare false speranze e sogni, che per raggiungere quegli obiettivi hanno investito tempo, energie e tanti, tanti soldi, e che si sentono dare dei coglioni, degli ingrati, dei bamboccioni e dei viziati perché rifiutano lavori che sviliscono il loro impegno. Ricordo a tutti che abbiamo sempre creduto nel principio che “Il Lavoro nobilita l’uomo”, non lo umilia.
Io non ho potuto godermi la bellezza dell’ambiente universitario, con tutti i suoi stimoli. Davo gli esami da non frequentante perché lavoravo per pagarmi gli studi, ho fatto qualsiasi lavoro però, dopo tanta fatica fisica, mentale ed economica, posso dire con leggerezza a Fornero e a chi la pensa come lei, che i cessi dell’autogrill li facesse pulire a sua figlia.
Spero di aver contribuito a stimolare qualche riflessione e a sviluppare moltissimi interrogativi. Senza domande non saremo mai in grado di fornire delle risposte e di riscrivere finalmente il nuovo Inno dei Lavoratori.