La riforma in senso territoriale della seconda Camera è fondamentale per il riassetto complessivo di cui il nostro Paese ha assolutamente bisogno. Non basta, infatti, aver proceduto ad un trasferimento di competenze legislative con la riforma del Titolo V, e all’avvio, piuttosto contraddittorio, del federalismo fiscale. La scelta di tipo autenticamente federalista necessita di costituzionalizzare le forme di cooperazione con una seconda Camera regionale. Un organo di cooperazione inserito nel cuore delle istituzioni statali consente infatti di sdrammatizzare i conflitti tra enti e di consentire che le decisioni in materie “miste” siano dibattute attraverso un procedimento strutturalmente “misto”. Questo perché è necessario che la cooperazione passi per linee istituzionali e non politico-partitiche. La logica dell’autonomia implica cioè che la cooperazione avvenga tra enti e i loro organi e che i soggetti che la realizzano siano incentivati a far prevalere la propria identità istituzionale, di appartenenza all’ente e di perseguimento dei suoi interessi, piuttosto che a quella partitica nazionale. Ciò potrà favorire lo sviluppo di politiche regionali e la contaminazione tra indirizzi partitici centrali e autonomi indirizzi locali. La creazione di una classe dirigente autenticamente locale, capace di dialogare con quella nazionale in posizione non subordinata, è l’unica opportunità per lo sviluppo di dinamiche autonomistiche. Per questa ragione le scelte organizzative in ordine alla cooperazione devono privilegiare una composizione degli organi che favorisca la responsabilità verso gli enti e verso le comunità locali piuttosto che quella verso i partiti nazionali. Detto in atri termini, la seconda Camera non solo non può essere eletta in modo svincolato dalle dinamiche dei sistemi politici locali, ma deve accentuare i “vincoli di mandato” nei confronti delle regioni di provenienza. Non si tratta, dunque, di scegliere semplicemente la rappresentanza nazionale attraverso un canale differenziato, ma di formare una Camera i cui membri siano portatori di un mandato a “mediare”, in sede centrale, tra gli interessi della propria comunità e quelli dell’intera Nazione. Sul piano finanziario, contrariamente a quanto è sempre avvenuto, la concreta determinazione dell’autonomia finanziaria non può essere determinata unilateralmente dal legislatore, a meno che questi non agisca all’interno di un bicameralismo differenziato su base regionale. Sul versante delle funzioni amministrative e della loro ripartizione tra gli enti territoriali, si deve scongiurare la possibilità, invero assai concreta, che essa venga affidata alla decisione unilaterale dello Stato attraverso una riserva di legge. D’altra parte è assolutamente necessario arrestare la tendenza ad un utilizzo indiscriminato da parte dello Stato di strumenti quali gli “atti di indirizzo e di coordinamento”, che espongono l’amministrazione regionale e locale al rischio di una cronica ingerenza dello Stato centrale. Allo stesso modo i poteri sostitutivi devono venire esercitati con sufficienti garanzie per gli enti “sostituiti”. Le esigenze degli altri enti locali (province e comuni) si devono risolvere all’interno di un’organizzazione regionale che ne garantisca adeguatamente l’espressione. Secondo un modello maggioritario negli “Stati composti”, appare preferibile un modello di parallelismo organizzativo: così come i rapporti tra Stato e regioni (i primi due livelli territoriali) sono regolati dalla Costituzione e si realizzano attraverso strumenti di raccordo costituzionalmente previsti; i rapporti tra le regioni e gli enti locali (i livelli territoriali più bassi) devono trovare la propria dimensione ottimale nell’area regionale, venendo disciplinati dalle norme regionali statutarie, con la garanzia di istituti di raccordo organizzativo e procedimentale, la cui necessità sia affermata direttamente dalla Costituzione. Infine, la seconda Camera deve avere un ruolo determinante nel disciplinare la tutela dell’autonomia regionale in relazione all’incidenza del livello comunitario. Ciò deve riguardare sia la fase ascendente, cioè il coinvolgimento non meramente simbolico nel processo preparatorio interno delle decisioni comunitarie, che quella discendente (attuazione delle decisioni sovranazionali). In particolare si deve scongiurare l’adozione di atti statali di invasione delle competenze regionali fondati sull’alibi della “necessità comunitaria”, cioè sempre in emergenza. Pur personalmente ritenendo preferibile il modello riconducibile a quello realizzatosi nell’esperienza del Bundesrat tedesco, si potrebbe adottare una soluzione che mantenga l’elezione diretta del Senato, ma, nello stesso tempo lo regionalizzi il più possibile. Si preveda pertanto: la contestualità dell’elezione con quella dei Consigli regionali, il collegamento tra gli schieramenti che si presentano nell’una e nell’altra competizione, l’integrazione della composizione del Senato con i Presidenti regionali quali membri di diritto (d’altronde noi conosciamo già oggi la figura del Senatore a vita che non è eletto dal corpo elettorale ma ha parità di diritti sul piano legislativo dei parlamentari eletti), l’unicità di voto della delegazione, la decadenza della rappresentanza regionale in corrispondenza dello scioglimento del corrispondente Consiglio regionale (soluzione questa formulata fin dall’ Aprile del 1999 nella mia proposta di legge costituzionale in materia di “ordinamento federale della Repubblica” durante la ormai lontana XIII^ Legislatura). Ricordo di aver fatto alcune visite nella Repubblica allora “federale” Tedesca, negli anni ’90, da consigliere regionale del Veneto, e anche da loro la discussione a quell’epoca era se il Bundesrat doveva rimanere rappresentativo degli esecutivi dei Landers, o se invece modificato a favore di una rappresentanza delle Assemblee regionali. Ad oggi è rimasta la versione originaria quella della rappresentanza degli esecutivi. Tornando alla mia proposta, la forte caratura regionalistica della seconda camera consentirebbe, conseguentemente, di affidare alla soluzione transattiva di procedimenti cooperativi un significativo numero di questioni altrimenti destinate ad essere risucchiate nell’unilaterale determinazione dello Stato (si pensi agli interventi legislativi statali che intersecano materie regionali, si pensi all’esercizio dei poteri sostitutivi, al raccordo con le politiche comunitarie, alla distribuzione della potestà tributaria tra i vari livelli di governo, eccetera). Parallelamente, analoghe soluzioni vanno rafforzate per risolvere questioni riguardanti i rapporti tra regioni ed enti locali (quali l’organizzazione regionale e la partecipazione degli enti locali ad essa principalmente attraverso il Consiglio delle autonomie locali, l’ordinamento degli enti locali, la distribuzione delle funzioni amministrative tra i vari livelli di governo sub-statali, eccetera). Un altro gruppo di funzioni qualificanti dovrebbe riguardare l’autonomia finanziaria, alla sistemazione della quale va provveduto attraverso l’integrazione di tre principi: quello della prevalenza dei tributi propri nella composizione della finanza locale, quello della previsione di forme di perequazione tra regioni con differente capacità fiscale, e quello della tendenziale permanenza nella regione del gettito raccolto in essa. In questo, il Senato federale deve avere un ruolo determinante, per garantire sufficientemente sia la copertura delle esigenze finanziarie nazionali, che la tutela regionale del proprio patrimonio finanziario. Per concludere, senza una seconda camera federale all’interno della quale trovare una sintesi fra le istanze locali e quelle nazionali, attraverso una ricomposizione degli interessi e degli eventuali conflitti fra i diversi livelli interessati, nella migliore delle ipotesi si rischia un neo centralismo di fatto, che violenta e umilia qualsiasi ruolo istituzionale delle autonomie locali e delle regioni. Va conseguentemente anche modificata la composizione dell’organo istituzionalmente chiamato a vigilare sul rispetto della disciplina costituzionale dei rapporti tra gli enti, e cioè la Corte costituzionale. Si può prevedere che alcuni dei quindici giudici che la compongono siano eletti dal Senato federale sulla base delle proposte di candidature formulate direttamente dalle regioni. Quanto proposto si pone l’obiettivo di rivedere l’assetto del bicameralismo nel quadro di un nuovo rapporto stato-regioni, in uno stato unitario e federale, ripartito paritariamente in stato centrale, regioni e comuni. Sono sempre più convinto che si dovrà ricorrere alla strada maestra di una Assemblea costituente, perché, vedete, l’Assemblea costituente eletta col sistema proporzionale in un numero contenuto di componenti, con tempi definiti per i processi di modifica ed eletta appunto col sistema proporzionale è l’unica garanzia per poter correggere quegli errori che abbiamo compiuto nell’approvare il Titolo V, (penso ad esempio alle materie concorrenti e a quelle primarie, che vanno assolutamente riviste per evitare la paralisi o un conflitto perenne tra istituzioni), la riforma del parlamento e quindi la sua composizione e numero, e la forma di governo. Può fare tutto ciò un parlamento eletto col sistema maggioritario e con il premio di maggioranza? Questo è in assoluta collusione con la volontà dei padri costituenti che hanno previsto, sì, le modalità di correzione della costituzione da parte del parlamento, ma da un parlamento eletto con il sistema proporzionale e non come abbiamo visto sempre negli ultimi trent’anni, da una maggioranza parlamentare che non era anche la maggioranza assoluta del popolo italiano.
GIOVANNI CREMA