di Mattia Carramusa
Noi socialisti sappiamo quanto le parole abbiano una storia e un peso. E quanto parole diverse indichino concetti diversi. Esistono temi, tutt’oggi dibattuti, sui quali si gioca con l’ambiguità linguistica dei termini italiani rispetto a diverse realtà emergenti in questo XXI secolo. Realtà diverse per le quali spesso si usano impropriamente o analogicamente altri termini. Ad esempio i concetti e le tematiche legate al “genere”, utilizzato ora per “sesso”, ora per “gender”, ora per “costrutto di genere”.
Un altro esempio, ed è quello di cui voglio parlare, è il tema della prostituzione.
Ti consigliamo di leggere anche – Nuovo Futuro
Prostituzione Italia: la questione concettuale
In Italiano esistono vari termini, dai più “aulici” e allegorici ai più volgari per indicare chi vive questa condizione. Si va dal termine “meretrice” (dal latino meretrix, che significa cortigiana ma anche prostituta) al volgarissimo “puttana” (dal latino barbaro-germanico putana, derivazione di puta, che significa fanciulla ma anche prostituta).
In generale si usa prostituta. Perché? Il termine prostituta/o deriva dal participio perfetto passivo del verbo latino prostituo. Il termine prostitutus/a/um significa, letteralmente “colui/colei/ciò che è esposto in vendita, che è mercanteggiato”.
Quando quindi ci si riferisce al fenomeno della prostituzione, a livello concettuale, ci riferiamo ai soggetti che sono prostituiti. Cioè messi in vendita, esposti, messi a nolo. La domanda da analisi grammaticale classica è: da parte di chi?
Questa analisi serve a dirimere un nodo che troppo spesso sfugge. Esiste una distinzione abissale tra prostituzione e le varie categorie del sex work, cioè tutte quelle realtà in cui dietro compenso si causa eccitamento o piacere sessuale tramite atti diretti o indiretti (e si va da chi pubblica foto di nudo su onlyfans a chi recita nel porno o fa spettacoli erotici e blablablabla).
Oltre, infatti, ad esserci problematiche sociali diverse e criticità differenti (e pertanto da argomentare in altra sede), è la dinamica prostitutiva ad essere intrinsecamente diversa.
Ti consigliamo di leggere anche – Lavorare o non lavorare, questo è il dilemma
Prostituzione Italia: i caporal-papponi
La dinamica a cui è assoggettato chi è prostituito non è troppo difforme dal meccanismo del caporalato. C’è chi “compra”, chi “vende” e la “merce”.
Non è quindi duplice il rapporto, bensì triplice. C’è il fruitore, c’è il pappone e c’è chi è prostituito. Chi è prostituito è soggetto alla tratta e schiavizzato da un padrone: le mafie e le reti criminali internazionali.
Non è un caso che, secondo stime attendibili, circa il 90% delle attività di sesso in cambio di soldi sia gestito dalle mafie. Le stesse che gestiscono la tratta degli schiavi del sesso. Per lo più da est Europa, nord Africa, sud America, Asia.
Le mafie di tutto il mondo collaborano per aumentare offerta e stimolare la domanda. Uno dei casi lampanti nel 2022, stando ad alcune testate, è Rieti: la provincia del Lazio con la più alta concentrazione di prostitute rispetto al numero potenziale di clienti. Perché un’elevata “offerta” se la “domanda” è bassa? Ovviamente per generare la domanda.
Dando per assodato che tutto questo discorso è un dato di fatto, come intervenire?
Quale risposta dallo stato? È dibattuto se sia il caso di legalizzare o reprimere il fenomeno. Il nodo fondamentale, a livello politico, è che si tratta di sfruttamento. Noi socialisti possiamo legittimare lo sfruttamento, da criminali, privati o stato? Ovviamente no.
Ti consigliamo di leggere anche – Meno destre più queer
Prostituzione Italia: lotta al caporal-papponato
La compagna Lina Merlin ha condotto una battaglia di civiltà contro lo sfruttamento della prostituzione, con la famosa legge 75 del 1958. Oggi l’ordinamento italiano non sanziona penalmente le attività di sex working o la clientela. Sanziona, però, lo sfruttamento della prostituzione, a cui diverse condotte sono collegate.
Troppi sono i tentativi delle mafie di camuffare legalmente la prostituzione (centri massaggi et similia). Occorre quindi una lotta stringente contro lo sfruttamento. Che, oggi, è lotta alle mafie.
Come fare? Quali strumenti utilizzare? Fatta chiarezza sui concetti, qui può crearsi un dibattito sull’efficacia degli strumenti giuridici per il fine politico.
Lo strumento penale può funzionare? Diversamente, quali strumenti utilizzare? Si può utilizzare lo strumento penale, come avvenuto per la lotta al caporalato. L’articolo 603 bis del codice penale sanziona non solo i caporali intermediari ma anche chi è colto in fruizione di tale servizio.
È il caso di fare ciò anche per lo sfruttamento della prostituzione? O serve sanzionare penalmente, a prescindere, il “cliente” come favoreggiatore o concorrente (per dolo o colpa) nel reato? O è necessario creare le condizioni per cui sia favorevole, al fruitore come a chi è prostituito, autodenunciarsi e denunciare i “caporal-papponi”?
La battaglia non è solamente alle mafie. È anche una battaglia culturale e di civiltà. E, a parer mio, per liberarci dallo sfruttamento della prostituzione, vale la pena combatterla.
1 commento
Visto che si mette in collegamento prostituzione e caporalato, diciamo anche che sì, il fruitore viene colpito, ma nessuno sognerebbe mai di proibire la raccolta di pomodori. Il lavoro agricolo è regolamentato, consentito, riconosciuto (viene punito lo sfruttamento). Non si capisce, quindi, perché il sex work non dovrebbe seguire lo stesso percorso: consentito, riconosciuto, regolamentato, con punizioni per lo sfruttamento.