di Fabrizio Montanari.
La guerra era in corso da un anno e, pur essendo sostanzialmente ancora una guerra di posizione, tendeva ad allargarsi ad altre nazioni, entrando progressivamente nella sua fase più acuta e dolorosa. Il 14 febbraio Milano venne bombardata per la prima volta nella sua storia, lamentando 14 morti e oltre 40 feriti. Il 12 aprile iniziò invece l’offensiva italiana per la conquista del ghiacciaio dell’Adamello, che contribuì a innalzare il morale delle truppe impegnate al fronte, dopo le pesanti perdite subite negli attacchi alle postazioni tedesche sull’Isonzo. Il governo e i generali, consapevoli della inferiorità bellica italiana rispetto a quella espressa dagli austro-ungarici, si affidarono, come si è detto, al coraggio dei giovani di leva, sul loro patriottismo e su azioni di grande impatto sull’opinione pubblica, anche se non sempre militarmente rilevanti. Ma come sempre accade in simili situazioni c’era un altro fronte da tenere sotto attenta osservazione, perché fortemente influenzato dai socialisti, notoriamente da sempre contrari all’entrata in guerra. Si trattava del fronte interno.
Con i giovani e molti capifamiglia al fronte, toccò soprattutto alle donne esprimere la contrarietà contro la guerra e tenere acceso lo spirito combattivo del fronte popolare e socialista. Il loro ingresso nell’industria in sostituzione degli uomini chiamati a prestare servizio militare, il loro attivismo nel promuovere proteste, agitazioni e scioperi, sconvolse i moderati e sorprese piacevolmente i socialisti.
D’altra parte il gravoso compito di sostenere la famiglia, spesso ridotta in miseria, ora ricadeva quasi esclusivamente sulle loro spalle. I lutti che pesavano ogni giorno di più su molte famiglie, esasperavano gli animi, prefigurando un futuro di enormi sacrifici per tutti. A tutto ciò si aggiunse la protesta per l’improvvisazione di un’assistenza pubblica incapace di frenare la speculazione e il mercato nero. L’amministrazione socialista reggiana fece in verità il possibile per alleviare la miseria e le tante privazioni del popolo, ma in più di un’occasione dovette scontrarsi con le limitazioni governative e la sordità degli industriali e degli agrari.
L’immagine che apparve in prima pagina sul giornale socialista risultò di grande impatto: aggrappato al parafulmine di una ciminiera un operaio lanciava la copia che l’Avanti! aveva dedicato al Primo Maggio. Sull’editoriale apparso su l’Avanti! del primo maggio si poteva leggere: “Se l’Internazionale non poté impedire la guerra, dovrà tuttavia proprio essa offrire all’umanità del domani le garanzie della pace; quando milioni di uomini…saranno ritornati al focolare domestico…vedremo questo ideale di fratellanza internazionale rifulgere nella purissima luce del suo trionfo…Con questo sentimento nell’anima noi mandiamo ai fratelli vicini e lontani il saluto augurale di Primo Maggio”. Evidentemente si credeva ancora nella rinascita dell’Internazionale una volta conclusa la guerra e nella sua capacità d’assicurare a tutti i popoli pace e progresso.
Il 27 aprile 1916 La Giustizia pubblicò le disposizioni governative per il 1° Maggio che concedevano agli operai e a tutti i lavoratori di astenersi dal lavoro in quella data purché, cadendo essa di lunedì, si lavorasse la domenica precedente.
Si trattò evidentemente di un compromesso che non cancellava la tradizione proletaria, pur annullandone gli effetti dello sciopero. Il governo temeva, infatti, il calo della produzione di materiale militare, specie in quel momento particolarmente delicato del conflitto.
La Camera del Lavoro e il PSI, nell’intento di scongiurare scontri e ulteriori lutti, e considerando quelle disposizioni un passo in avanti rispetto alle proibizioni di riunioni e manifestazioni in vigore dal 1915, non protestò più di tanto, adeguando il suo programma di mobilitazione. In fondo, dicevano, si era in presenza di un riconoscimento ufficiale della festa dei lavoratori.
Fecero eccezione le operaie delle Officine meccaniche, che si astennero dal lavoro per due giorni, arrestando in quel modo la produzione di materiale bellico. Raggiunta in corteo la città, si recarono alla Camera del lavoro per svolgere una accesa assemblea. I dirigenti sindacali invitarono le protagoniste dello sciopero a rispettare le regole di guerra, senza farsi prendere dall’emotività e dalle facili soluzioni per porre fine al conflitto. La Giustizia quotidiana ne diede notizia il 3 maggio.
Le restrizioni imposte dal governo e fatte rispettare dalle autorità di polizia si rivelarono però, contrariamente alle aspettative, rigidissime. Nonostante le proteste dei dirigenti provinciali del partito e del sindacato reggiano, che in delegazione si recarono dal prefetto e al comando dei carabinieri, diversamente da quanto accadde in altre realtà, vennero vietate tutte le riunioni, anche quelle previste in forma privata.
A Guastalla vennero addirittura impedite tutte le iniziative, come l’esposizione di simboli e bandiere.
Nel commentare l’andamento di quella giornata, La Giustizia quotidiana del 4 maggio scrisse:
“I pigmei possono per un momento compiacersi per la mancata esposizione di un drappo, o di un manifesto, ma non potranno mai impedire la professione di una fede sinceramente vissuta. Così tutte le misure ridicole, le chiamate, le contrattazioni, le pretese per la firma dei verbali assurdi, sono cose che fanno ridere e, tutt’al più una popolazione civile come la nostra, ne sa prendere nota per ricordale a tempo opportuno. Oggi è così. Ma domani?”.
Solamente in piccole frazioni isolate della provincia si tennero riunioni private e incontri semiclandestini per il 1° Maggio: a Pieve di Guastalla, a Busana, a San Faustino. In ogni caso ci si limitò a un pranzo a casa di amici, a una bicchierata al bar del paese, a una passeggiata con l’abito della festa.
A livello provinciale venne inoltre cesurato il manifesto nazionale del Partito socialista pubblicato da La Giustizia. Le province più colpite dalle restrizioni più severe furono quelle di Torino, Milano e Reggio, le piazze cioè dove l’opposizione all’entrata in guerra dell’Italia aveva riscontrato maggiori contrasti e anche morti e feriti.
A Torino fu impedito la conferenza di Costantino Lazzari prevista alla Camera del lavoro, a Milano la conferenza di Turati presso il Teatro del Popolo, a Reggio tutte le piazze furono blindate dalle forze di polizia.
Quello del 1916 fu il primo dei tre 1° Maggio che l’Italia trascorse durante la guerra mondiale e, forse, fu il più difficile e il più censurato. Bisognerà attendere la fine del conflitto per riprendere a celebrare la festività tanto cara al movimento operaio con maggiore forza e determinazione.