di Alberto Caruso
La denuncia di Marco Cappato di essere sottoposto ad intercettazioni preventive da parte dei servizi segreti rende non più prorogabile l’esigenza di portare l’attenzione del dibattito pubblico sul tema delle captazioni delle altrui conversazioni e, in generale, della penetrabilità della sfera individuale di riservatezza ad opera del potere pubblico.
Bene la smentita del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, con delega ai servizi, Alfredo Mantovano, ma è necessario che la questione non venga fatta cadere, ancora, nel dimenticatoio.
Le intercettazioni sono, tecnicamente, un mezzo di ricerca della prova.
Tecnicamente, si, perché poi, di fatto, diventano troppo spesso uno strumento di intrusione illegittima nella vita privata degli individui, dalla quale non ci si può difendere da soli. Ecco perché la loro stretta regolamentazione diventa di vitale importanza per evitare abusi e soprusi, a maggior ragione dopo la questione Cappato, benché, ovviamente, la normativa relativa alle intercettazioni preventive dei servizi segreti è diversa da quella prevista dal codice di procedura penale.
Dopo lo sbandieramento di misure ultraliberali per frenare l’uso massivo che la magistratura inquirente fa delle intercettazioni, il ministro Nordio (in verità, Meloni e Mantovano più che Nordio) ha portato nel Consiglio dei Ministri del 7 agosto – l’ultimo prima delle ferie estive – un decreto che ha esteso l’applicazione del regime eccezionale di intercettazione degli indagati per delitti di criminalità organizzata anche a chi è sottoposto ad indagine per reati comuni commessi con la c.d. aggravante mafiosa di cui all’art. 416 bis 1 del codice penale (ossia, quando il reato è commesso con il metodo mafioso o per agevolare le attività dell’associazione mafiosa).
Si sa, quando si usa il termine mafia, ogni potenziamento degli strumenti di indagine appare giusto. Ma così non è, non necessariamente. In particolar modo perché, in tal caso, il Governo interviene per far salve delle indagini che esulano dall’ipotesi di associazione mafiosa.
Il decreto, infatti, è conseguenza della sentenza n. 34895/2022 della Cassazione, con la quale la Suprema Corte ha confermato quanto le Sezioni Unite avevano chiarito già nel lontano 2010 (sentenza “Donadio”), e cioè che resta esclusa dal concetto di criminalità organizzata ogni condotta che non sia perpetrata in un contesto associativo (non necessariamente mafioso), pur se caratterizzata dal metodo mafioso o pur se posta in essere al fine di agevolare l’attività delle associazioni mafiose.
In pratica, gli ermellini hanno semplicemente ribadito un dato già assodato nell’ordinamento: la legge (qualunque legge, quindi anche quella che regolamenta le intercettazioni) che contempla strumenti di contrasto alla criminalità organizzata non si applica a chi commetta un delitto, per così dire, da solo, senza essere partecipe di un’associazione criminale.
Con la conseguenza che non può applicarsi a chi agisca fuori dall’associazione (per delinquere o di tipo mafioso) il regime di intercettazione – più afflittivo – previsto per i delitti di criminalità organizzata, neppure se il delitto ipotizzato sia aggravato dal metodo mafioso.
Attenzione: le intercettazioni sono pur sempre possibili, ma per la loro autorizzazione – e successiva utilizzabilità – è necessario che sussista il requisito dei gravi indizi anziché quello meno stringente dei sufficienti indizi, richiesto per i delitti di criminalità organizzata. Nessun problema, quindi, non fosse altro che le procure della Repubblica e i GIP, in tutti questi anni, hanno continuato ad applicare il regime di intercettazione eccezionale anche a chi non fa parte di un’associazione per delinquere o di tipo mafioso.
Ecco, allora, che una sentenza del 2022, perfettamente logica, che ribadisce ciò che la giurisprudenza delle Sezioni Unite chiarisce già da tempo (sentenza “Petrarca” del 2005; sentenza “Donadio” del 2010 e sentenza “Scurato” del 2016) diventa un urgente problema politico. È così che l’eccezione diventa la regola e gli strumenti di contrasto alla criminalità organizzata un modo per ledere i diritti, garantiti dalla Costituzione, di chi con quella non ha nulla a che fare.
Benché ciò basti per far drizzare le antenne e mettere in guardia chi ancora ritiene sia giusto e saggio difendere il principio libera-garantista che informa(va) l’ordinamento penale, il merito è ciò che della vicenda preoccupa meno. I brividi veri, in questo caso, quasi che sia uno scherzo linguistico, scaturiscono dal metodo: sia quello che ha condotto all’emanazione del nuovo decreto del ministro Nordio – che tradisce una subordinazione del legislatore al potere inquirente –, sia quello che, attraverso tali interventi legislativi, va implementandosi in Italia.
Il metodo inquisitorio, seppure venduto come rimedio al metodo mafioso. E la cosa passa sotto silenzio, non se ne parla. Nessuno, tra i tanti commentatori e cronisti, pare interessarsene.
Certo che ad agosto si è meno accorti, ma attenzione che il silenzio, in questa occasione, non sia un modo per non disturbare nessuno. Nessuno, ad eccezione del Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane – avv. Caiazza –, pare essersi accorto di ciò che è successo. E non si cada nell’errore di credere che questa sia materia da togati. Nient’affatto.
Qui si tratta di giustizia, quella giustizia che sta alla società come la salute sta all’individuo. Qui si tratta di come si concepisce il rapporto tra il potere di chi indaga e i diritti di chi è indagato; tra il potere di chi indaga e gli altri poteri dello Stato; tra il potere di chi ha funzione inquirente e l’autorevolezza di chi ha funzione giudicante.
È la natura di questi rapporti che dev’essere discussa e non lo è mai, o comunque mai abbastanza. Solo da una condivisa riflessione sulla natura di tali rapporti può cogliersi la natura del potere giudiziario inquirente. Occorre dibattere, cioè, su quanto i diritti dell’individuo e gli altri poteri dello Stato siano, oggi, in equilibrio con il potere di chi indaga e se si ritenga ancora giusto che siano in equilibrio. Perché, altrimenti, si ritorna al metodo inquisitorio – per quanto, come detto, offerto all’opinione pubblica come risposta al fenomeno mafioso – senza che nessuno spenda una parola.
Si badi che tanto più si squilibra a vantaggio del giudiziario il rapporto con gli altri poteri dello Stato e con i diritti dell’individuo, quanto più viene a costituirsi una corporazione di inquisitori. Una corporazione secondo la quale le sentenze non si discutono, ma si eseguono, solo quando sono di condanna; l’intervento del legislatore (per di più di quello d’urgenza) si invoca per ovviare agli effetti di un pronunciamento che, benché giuridicamente impeccabile, non risulta ad essa gradito, magari perché rischia di farle fare la figura di una corporazione di inquisitori che se ne infischiano delle sentenze delle Sezioni Unite.
Una decisione che rischiava di indebolire molti impianti accusatori, facendo fare una figura barbina alla corporazione. Si stia molto attenti, per favore. Si discuta e tanto, che non è neppure giusto fare di tutta l’erba un fascio. Parlino anche i magistrati che disdegnano il metodo inquisitorio e che non vogliono deviare dai binari costituzionali nell’esercizio della propria pubblica funzione. Che i devastanti effetti di rapporti squilibrati già si vedono.
Qual è, infatti, quel potere inquirente che fa paura alle persone oneste? È questo un esercizio giusto del potere o, piuttosto, è questa malagiustizia per la quale nessuno paga mai né mai si scusa?
Che se ne parli laicamente, che si cerchino le risposte nella società prima che nelle Corti di giustizia; che, se il diritto cessa di essere un fatto sociale e culturale, accade che un palpeggiamento sgradito, poiché durato meno di dieci secondi, non sia molestia; succede che una violenza sessuale resti impunita perché gli autori hanno mal interpretato (sic!) un espresso dissenso della vittima.
Non si lesinino parole e opinioni.
Che a stare in silenzio non si fa giustizia.
Che il silenzio, questo si, è un metodo mafioso non intercettabile.