di Alessandro Palumbo
Che la giustizia in Italia non funzioni è cosa risaputa, a tal punto che la sua riforma è diventata uno dei punti fondamentali del PNRR.
Non funziona da tanti punti di vista, la durata media di un processo penale è di circa 4 anni e mezzo (1600 giorni) e altrettanto per un processo civile; e parliamo di medie, perché l’esperienza ci insegna che spesso e volentieri i processi sono più lunghi. Il 50% dei detenuti sono in attesa di giudizio quindi per la nostra legislazione innocenti, il 55% dei processi finiscono con una assoluzione e questo vuol dire che più di un quarto di detenuti passano in media 3 anni in carcere pur essendo innocenti. Secondo il Sole 24 ore due terzi dei fascicoli delle Procure non va a giudizio.
Una situazione che certamente provoca diffidenza da parte dei cittadini e un forte impatto negativo sul PIL, uno studio del CER EURES stima che i soli ritardi della giustizia civile pesano per un 2,5% sul PIL .
Con numeri come questi nessuno potrebbe negare che qualcosa non funziona, che gli indicatori di efficienza e efficacia sono negativi e che il tasso di sofferenza gratuita è abnorme.
Infatti è un fiorire di studi, ricerche, conferenze, articoli di accademici che denunciano questa situazione, ma quando si esce dalla accademia e si arriva alla volontà politica di intervenire per cambiare radicalmente il sistema giustizia ci si trova di fronte a quella che gli esperti chiamano pathdependency, cioè la resistenza al cambiamento. Una resistenza che viene dalla parte che più dovrebbe essere interessata a migliorare l’efficienza del sistema, dai magistrati.
Magistrati e non più genericamente giudici, perché è indubitabile che i pubblici ministeri siano i protagonisti indiscussi di questa reazione (PM che tecnicamente sono magistrati, non giudici, anche se per una aberrazione del sistema possono a loro volta diventare giudici).
Accanto a loro un insieme di “intellettuali” che soffiando sulle paure della gente costruiscono una aurea di intoccabilità dei magistrati.
Un esempio è l’aggressione subita dal ministro Nordio.
Nordio è un magistrato con un curriculum invidiabile: ha indagato le BR, ha partecipato alle indagini di Mani Pulite, pur criticando i metodi “ambrosiani,” è stato un protagonista nelle indagini contro la mafia del Brenta, ha seguito le indagini per corruzione sul Mose. Soprattutto oltre che accademico è un uomo concreto che conosce la macchina giudiziaria per averla vissuta per più di trenta anni.
Eppure è vittima di un linciaggio politico/mediatico incivile, arrivando persino ad adombrare una non volontà di combattere con efficacia la criminalità organizzata.
Quali le sue colpe?
La prima è quella di aver fatto capire con chiarezza che è finita l’epoca della accademia e dei ritocchi frutto di compromessi al ribasso, ma è arrivata l’ora di incidere con il bisturi un corpo malato.
Tutto si può sopportare tranne che dai convegni e dalle belle parole si passi ai fatti.
Evidenze, numeri, inefficienze clamorose, errori marchiani possono essere denunciati in convegni, ma guai a porvi rimedio.
Il 90% dei casi di abuso di ufficio finisce con una assoluzione, si tratta di abolire un reato vago dove la inconcludenza è palese, ma che paralizza l’opera della PA, ebbene lo si può dire in studi e ricerche, ma se un ministro ne prende atto e propone la sua abolizione si scatena la tempesta perfetta.
Le intercettazioni finiscono sulla stampa anche se non di rilevanza giudiziaria? Il segreto istruttorio è una chimera? Si può dire, ma intervenire concretamente rappresenta un danno per l’opinione pubblica (questo certamente è vero per il Fatto Quotidiano che vive di questi pettegolezzi origliati dal buco della serratura).
Insomma Nordio è colpevole di voler una giustizia che funziona e di volerlo non solo dire, ma di volerlo attuare con gli strumenti che la nostra Costituzione gli consente.
Ma l’altra grave colpa di Nordio è di aver detto in Senato “il Parlamento non sia supino ai magistrati”.
Una frase che vuole restituire prestigio e ruolo al Parlamento, massima espressione della volontà popolare, Istituzione più alta nel sistema costituzionale, una frase che ogni persona di cultura democratica dovrebbe approvare.
Eppure in questa Italia c’è un ribaltamento tale che questa frase ha mandato su tutte le furie magistrati, che evidentemente sono abituati a un Parlamento supino e ha terrorizzato gli stessi politici.
Un PD ormai naufrago che si aggrappa ai ricordi di un giustizialismo che miscela la cultura inquisitoria comunista con quella cattolica, il M5S che ormai ricalca le orme di Masaniello, ma la stessa maggioranza di Governo entra in fibrillazione, impaurita dallo scontro con la magistratura.
Ebbene noi siamo con Nordio, difendiamo il diritto della politica di definire una linea sulla gestione della giustizia, difendiamo il diritto della politica di non essere supina, ma di essere protagonista.
Diciamo al Fatto Quotidiano che con sprezzo del ridicolo raccoglie le firme per far dimettere Nordio che forse potrebbero occuparsi delle inefficienze e degli errori che rendono possibili latitanze trentennali.
Nel nostro piccolo noi con questa rubrica vogliamo continuare una battaglia per una giustizia giusta, denunciando colpe e abusi e proponendo soluzioni, con la speranza che il ministro Nordio non ascolti solo gli insulti , ma anche la voce di chi da anni è in prima linea e soprattutto della gente che sa per esperienza che incubo può essere entrare nel labirinto della nostra giustizia.