di Nicola Dessì
Silvio Berlusconi è morto. Le sue idee e le sue azioni erano del tutto incompatibili con noi socialisti e con i valori in cui crediamo.
In questo articolo, non farò riferimenti alle vicende giudiziarie che lo hanno riguardato, che sicuramente hanno rilevanza politica, ma richiederebbero un approfondimento specifico, come tutte le vicende di diritto penale.
Mi limiterò a ricordare le sue decisioni come capo di governo: consolidamento di un mercato del lavoro fondato sui contratti precari (legge Maroni, 2003, e riforma Gelmini per la ricerca universitaria, 2008-2010), e indebolimento della contrattazione collettiva (2011); partecipazione ai tagli di spesa, o comunque ai mancati aumenti, per il servizio sanitario nazionale e per il trasporto pubblico; nessun intervento per l’assistenza agli anziani, ai disabili, ai malati di mente (sebbene il suo governo abbia aumentato le pensioni minime); disciplina più restrittiva per il fine vita e la fecondazione assistita; gestione repressiva delle manifestazioni di piazza durante il G8 di Genova. Non è utile ricordare che l’azione dei governi dell’Ulivo sia stata tutto sommato simile, e altrettanto svantaggiosa per i lavoratori italiani.
Inoltre, non posso dimenticare che Berlusconi ha contribuito in misura decisiva alla demolizione del Psi, la cui natura è stata molto più mediatica che giudiziaria. Non solo perché, tra il 1992 e il 1994, le sue televisioni hanno manifestato un consenso acritico nei confronti dell’operazione Mani Pulite, ma soprattutto perché Berlusconi era apertamente ostile ai vecchi partiti organizzati, e auspicava la sostituzione (almeno parziale) dei politici di professione con una nuova classe politica, formata soprattutto da dirigenti d’impresa. Non è un caso che Msi e Lega, cioè i principali alleati di Forza Italia, fossero anche i più accaniti avversari dei socialisti.
Persino alcuni aspetti della vita privata di Berlusconi, come la sua idea del rapporto tra uomini e donne (ne è un esempio la battuta sul pullman di prostitute promesso ai giocatori del Monza, come se la prostituzione fosse un argomento su cui si può scherzare, e non la piaga che è), sono indizi di una posizione politica incompatibile con il socialismo.
Elencare questi fatti è necessario per sciogliere ogni ambiguità sull’operato politico di Berlusconi da un punto di vista socialista. Quel che non mi è mai tornato a proposito di Berlusconi è la ricostruzione del suo rapporto con la società italiana, e, quindi, della sua influenza sulla storia politica del nostro Paese.
A questo proposito, conosciamo tutti la vulgata. Le televisioni di Berlusconi, i personaggi belli e opulenti delle serie televisive americane, il denaro promesso dai giochi a premi, la costante promozione di oggetti da consumare, hanno diffuso tra gli italiani un ideale che non esisteva: la ricchezza, l’apparenza, il successo. Di conseguenza, quei cittadini che, un tempo, credevano nei valori di solidarietà tramandati dalla Chiesa cattolica e dal movimento operaio, sono diventati più egoisti, e, quindi, pronti a votare per un partito di destra. Quando Berlusconi è diventato un uomo politico, e ha iniziato a promettere meno tasse e meno vincoli per le imprese, ha guadagnato il consenso di un popolo che era ormai pronto a sostenere la sua linea, grazie alle idee diffuse dalle sue trasmissioni. Una volta vinte le elezioni, i giornalisti a suo libro paga avrebbero fatto il resto, ingannando i telespettatori con notizie false, o comunque non sempre vere, ma in ogni caso favorevoli alla linea politica dei suoi governi.
In sintesi, le televisioni di Berlusconi hanno plasmato l’Italia, trasformando le loro istanze secondo un modello culturale consumista e individualista.
In questa versione dei fatti ci sono alcune verità.
Do per scontato che i giornalisti di Mediaset abbiano fatto il possibile per dare un punto di vista imparziale, ma sarebbe stato comunque opportuno tenere separate la proprietà di grandi mezzi di informazione e la presidenza di un partito politico (e, a maggior ragione, quella del Consiglio dei ministri). In realtà, ciò che davvero era inammissibile, a prescindere che Berlusconi fosse o no in politica, era la concentrazione in mano a un solo proprietario – e, quindi, a un solo punto di vista – di quasi tutte le concessioni rilasciate ai privati per trasmettere sulle frequenze televisive nazionali (le quali, per ragioni tecniche, devono essere numericamente limitate).
Soprattutto, è vero il dato politico. In sostanza, Berlusconi ha promesso agli italiani una società in cui tutti avrebbero avuto l’opportunità di arricchirsi, a patto di lavorare duramente e di rinunciare ad alcune garanzie (meno tasse, anche al costo di tagli per la sanità, le pensioni, i trasporti, le scuole pubbliche; meno diritti sindacali per i lavoratori dipendenti; meno controlli ambientali sull’industria e sull’edilizia). Non è un’esclusiva di Berlusconi. È lo stesso compromesso che era già stato proposto agli elettori da Margaret Thatcher, e poi da Ronald Reagan, ma pure da altri partiti politici, anche al centro (come Ruud Lubbers in Olanda: meer markt, minder overheid), e, successivamente, anche a sinistra. Semmai, le modalità concrete di questo compromesso avevano alcune caratteristiche prettamente italiane, come era inevitabile che fosse.
E tuttavia, nel campo antiberlusconiano, si è sempre rifiutato di ammettere che quella “promessa” di Berlusconi non era una trappola per gonzi. Chi ha creduto a quella promessa lo ha fatto perché voleva crederci. Semplicemente, perché quella promessa andava incontro a un bisogno già esistente nella società occidentale. Non era stato fabbricato artificialmente, né indotto attraverso la pubblicità e il rimbambimento televisivo. D’altronde, non è sufficiente avere il potere di produrre trasmissioni televisive: è necessario che ci siano anche persone disposte a guardarle.
Al contrario, era una necessità avvertita naturalmente dai lavoratori, soprattutto come conseguenza del movimento operaio e delle sue conquiste. Solo il trentennio glorioso aveva permesso a milioni di proletari di accedere materialmente al benessere: ma, soprattutto, li aveva liberati (purtroppo, solo per il momento e solo in parte) dall’abitudine a subire, a rinunciare, a “stare nel loro”, alla tragica quotidianità della gavetta e del tirare la cinghia, e questa novità non poteva che coinvolgere anche quei proletari che al benessere non erano ancora arrivati.
È molto probabile che il capitalismo abbia assecondato questa nuova tendenza popolare a “desiderare” e ad “accumulare” perché era attratto dalla prospettiva di vendere beni di consumo, e quindi di guadagnare. È la spiegazione più logica, e quindi forse è la più vera, ma non può essere l’unica. In Italia sappiamo cosa successe nel 1920, quando si alzarono gli stipendi degli operai: le camicie nere intervennero subito a ristabilire un “ordine” in cui gli operai tornarono a non osare più, a non tentare più di uscire dalla miseria, a non avvicinarsi più a quei vantaggi che, da sempre, erano riservati ai borghesi. Dopo gli anni Sessanta, evidentemente, la forza del movimento operaio era diventata così dirompente da non poter più essere soffocata, né in Italia, né altrove.
In Italia, poi, il sogno dell’arricchimento si era diffuso anche per via delle particolari condizioni in cui lavoravano operai e artigiani, soprattutto dopo gli anni Settanta e la progressiva delocalizzazione (non sempre all’estero) delle attività industriali, che fino ad allora erano concentrate nei grandi stabilimenti: molte ore di lavoro; alto numero di imprese piccole, e quindi di lavoratori disposti ad assumersi il rischio d’impresa; ricorso frequente al doppio lavoro per molti dipendenti; costo del lavoro relativamente basso; sfruttamento delle donne per il lavoro domestico e di cura. Questi sacrifici non erano stati inutili per i lavoratori, soprattutto perché avevano consentito che crescessero le esportazioni dei prodotti finiti.
La scalata alla ricchezza, nell’Italia di quegli anni, non era la promessa virtuale di una televendita truffaldina. Era una realtà visibile per milioni di lavoratori. Se si dimentica questo aspetto dell’economia italiana, è impossibile capire il berlusconismo. Anzi, è impossibile capire tutta la destra, compresa quella leghista e missina che, prima, è stata alleata di Berlusconi e, dopo, ne ha ereditato l’egemonia. Solo un popolo abituato a lavorare senza mai alzare la testa può accettare una società conservatrice, che non è l’Italia del ventennio fascista, ma la solita vecchia Italia – che esisteva prima di Mussolini, e gli è sopravvissuta, dall’epoca democristiana in avanti – in cui milioni di persone accettano di ubbidire e rinunciare ai propri diritti, sul posto di lavoro e nella vita quotidiana, perché si è sempre fatto così e piuttosto che niente è meglio piuttosto.
In definitiva, la storia del berlusconismo è più banale di quel che sembra. Berlusconi ha riproposto per l’Italia il modello di società che il Sessantotto e le lotte operaie avevano messo in discussione: spezzarsi la schiena a lavorare, fare a meno del welfare pubblico e di altre forme di protezione, non perdere troppo tempo a migliorare le condizioni delle donne o delle minoranze.
In altre parole, Berlusconi è stato il capo di una normale forza politica di centro-destra. È stato sicuramente una figura anomala, considerando la condanna penale che ha subito e il suo quasi monopolio dei mezzi di comunicazione televisiva. Ma non era anomala la sua cultura politica.
Era diversa dalla tradizionale destra democristiana, che non era più adatta a rappresentare i conservatori in una società molto più secolarizzata e quindi meno sensibile alle prediche dei preti: rispetto a quell’ideologia, non c’è dubbio che il berlusconismo abbia aggiunto la promozione del consumismo e del desiderio di ricchezza. Ma non li ha introdotti artificialmente e non c’è stata alcuna operazione mediatica di lavaggio del cervello. Ha soltanto dato voce a un bisogno che era ormai fisiologico nella classe lavoratrice e che nessuna proposta politica poteva più ignorare.
Questo bisogno non è, di per sé, un prodotto della destra. Anzi, la destra di Berlusconi, così come quella di Reagan e Thatcher (al netto di alcune differenze), lo ha limitato, coerentemente con una tradizione conservatrice e non liberale, riservando il traguardo del benessere a pochi meritevoli ed esponendo molti lavoratori ai rischi di povertà che sono tipici della competizione economica.
Ai socialisti spetta trovare un nuovo compromesso con quel bisogno di ricchezza, che è ancora presente nella società, nonostante la crisi economica degli ultimi anni. Per questa ragione, il nostro compito consiste anche nel trovare nuovi limiti a quel bisogno, limiti diversi rispetto a quelli imposti dalla destra, e corrispondenti con i nostri obiettivi: la difesa del diritto di tutti a un minimo di benessere, e l’urgenza di fermare il cambiamento del clima e il danneggiamento del territorio.
Continuare a derubricare i desideri dei lavoratori italiani al un complotto televisivo ordito dalla buon’anima di Berlusconi non sarà di aiuto. Non lo sarà nemmeno l’ostinazione nel non capire la natura della destra italiana, che – al di là delle nostalgie di alcuni per il fascismo e i suoi simboli, e nonostante le chiacchiere velenose sul populismo e sul voto delle periferie – non ha nulla di sorprendente, né tantomeno di eccezionale, rispetto a quella che il movimento operaio e il femminismo hanno sempre fronteggiato nella loro gloriosa storia.