Di MIchele Chiodarelli
“ Mai dire mai, perché i limiti come le paure spesso sono solo illusioni”; sono le parole con cui Michael Jordan concluse il discorso che fece nel settembre del 2009 quando entrò a far parte della “Hall of fame” di basket e che esprimono il concetto che a mio avviso sintetizza meglio la vita straordinaria di un uomo, che il 17 febbraio scorso ha compiuto 60 anni, che è stato il più forte giocatore di basket di tutti i tempi e la star al mondo più capace di diventare icona pop, mito globale, prodotto, affascinante protagonista della società contemporanea.
Jordan trascorre infanzia e adolescenza a Wilmington, North Carolina un luogo di basket, soprattutto universitario. North Carolina University, Duke, Wake Forest, Davidson, tra le tante con i campus che si snodano lungo La Tobacco Road, percorso di culto, che collega assi, cesti e imprese.
Micheal inizia a giocare a basket sulle orme del fratello maggiore. Entrambi con la maglia 45. Per questo, a volte, il più piccolo è costretto a sceglierne un altro. Opta per il 23, la metà arrotondata. Quel numero è oggi storia e lo identificherà sempre, per tutta la carriera. Dopo l’high school ottiene una borsa di studio alla North Carolina University. È un College rinomato con una delle squadre con più tradizione della Ncaa (il campionato universitario). Essere scelti lì, indossare quei colori, è un privilegio.
Nel 1982 Micheal guida la squadra alla vittoria del titolo nazionale con il canestro decisivo in finale con un tiro, in sospensione, il suo eterno marchio di fabbrica, contro Georgetown. Gli scout Nba hanno già il suo nome nei loro taccuini. Ora lo sottolineano con la matita rossa, comunque il legame con quell’Università resterà sempre fortissimo tanto da farlo scendere in campo, in Nba, tenendo sempre sotto quelli dei Bulls anche i calzoncini celesti dei ‘Tar Heels’.
Fu poi scelto dai Chicago Bulls per terzo dopo Hakeem Olajuwon e Sam Bowie al Draft NBA del 19 giugno 1984 al Madison Square Garden di New York in quella che è considerata, generalmente, l’edizione più ricca di talento dato che, fra gli altri vennero selezionati anche due futuri campionissimi come Charles Barkley e John Stockton.
L’inizio in Nba di è altalenante. Jordan sale e scende dalle montagne russe, cade e si rialza, illumina e si chiude in sé. Vince il titolo di matricola dell’anno ma durante il secondo anno si rompe un piede. La riabilitazione è faticosa ma gli permette di acquisire ulteriore forza mentale. Vince titoli personali ma deve aspettare 6 anni e l’arrivo di Phil Jackson in panchina, per consegnare il primo titolo della storia ai suoi Bulls e alla città di Chicago. Il 28 marzo del 1990, diventa leggenda, segnando 69 punti contro Cleveland. In tutta la sua carriera supererà la soglia dei 60 punti ben 5 volte.
Quell’anno inizia ufficialmente la dinastia di Michael Jordan e dei Bulls caratterizzata dal legame in campo con Scottie Pippen. Tre titoli in fila, “il famoso three-peat”. Nessuno ci era riuscito tra i grandi nell’epoca. Non Bird con i Celtics, non Magic Johnson con i Lakers. I suoi grandi rivali. Jordan lo sa e lo ribadisce quando può. In mezzo, inoltre, ci sono le celeberrime Olimpiadi di Barcellona 1992 e il dream team degli Usa. La squadra più forte mai scesa su un parquet. È oro, ovviamente e Michael è il leader emotivo di quell’irripetibile insieme di fuoriclasse.
Qualcosa si spezza nel 1993. Il 22 agosto il padre, James, viene ucciso mentre fa ritorno dal funerale di un amico. Si ferma, in macchina, per riposare. Due malviventi lo trovano, lo uccidono e gli rubano l’auto. È uno shock. Pochi mesi dopo arriva l’annuncio del ritiro. Il padre voleva vederlo giocare a baseball e lui prova ad accontentarlo. Ma la parentesi dura poco. Il livello è troppo alto e Michael decide, il 18 marzo del 1995, di tornare al suo amore, il basket, e a casa sua, Chicago. Lo fa con sole due parole: “Sono tornato”.
È un clamoroso ritorno. Altra tripletta in fila, altri record, per esempio, nel 1996 le 72 vittorie in stagione regolare, impresa che verrà superata solo nel 2016 dai Golden State Warriors..Altri tre titoli per Chicago e per i Bulls. Il suo nome diventa immortale. Il canestro di talento e mestiere a sei secondi dalla fine in gara 6 per l’87 a 86 contro gli Utah Jazz e Byron Russell è considerato tra i capolavori del gioco. In questo modo spettacolare si compie, il 14 giugno del 1998, l’ultimo atto di Jordan con i Bulls.
. Il 14 gennaio 1999 comunicò il nuovo addio, dedicandosi al golf, sport che ama, e acquistando i Washington Wizards. Nel 2001 tornò a giocare con la squadra di cui era principale azionista devolvendo il compenso alle famiglie delle vittime degli attentati dell’11 settembre. Alla fine della stagione 2002-2003 il terzo e definitivo ritiro, concludendo la carriera con una media di 30,12 punti a stagione la più alta di sempre.
Il palmares di Jordan è ineguagliabile: consta infatti di 6 anelli NBA, 2 ori olimpici e un titolo NCAA, oltre a una miriade di riconoscimenti individuali che includono sei MVP delle finali, 10 titoli di miglior marcatore (entrambi record), cinque MVP della regular season, 10 selezioni All-NBA First Team e nove nell’All-Defensive First Team, 14 partecipazioni all’NBA All-Star Game e un NBA Defensive Player of the Year Award. Introdotto due volte nella Naismith Memorial Basketball Hall of Fame: nel 2009 per la sua carriera individuale e nel 2010 come membro del Dream Team. Diviene, poi, membro della FIBA Hall of Fame nel 2015.
Il 22 novembre 2016 viene insignito dal presidente Usa, Barack Obama. della Presidential Medal of Freedom, la più alta onorificenza civile statunitense.
Si stima che con oltre 2 miliardi di dollari di patrimonio sia il quarto afro-americano più ricco del pianeta dietro all’imprenditore Robert F. Smith, al businessman David Steward e a Oprah Winfrey. A questo proposito è giusto sottolineare come Jordan non si sia mai speso troppo per i diritti della comunità nera evitando con cura di affrontare temi politici. Inoltre a 20 anni dal ritiro continua a introitare decine e decine di milioni di dollari all’anno solo dalla Nike che gli ha dedicato una linea di scarpe ancora attualmente vendutissime le “Air Jordan”, appunto.
Oggi Jordan è uno splendido sessantenne, da fare invidia al quarantenne Nani Moretti, con molteplici interessi, fra cui la proprietà di una franchigia, Charlotte, NBA, che non disdegna il mondo dello spettacolo. Già nel 1996, infatti, girò Space Jam un film diretto da Joe Pytka, prodotto in tecnica mista, che ha come protagonisti Michael (che interpreta una versione immaginaria di se stesso) e il personaggio di Bugs Bunny ed è il resoconto di una partita di pallacanestro contro gli alieni. Space Jam Fu un successo al botteghino, incassando oltre 250 milioni di dollari in tutto il mondo e diventando il film sulla pallacanestro con il maggior incasso di sempre, nonché il decimo film più visto del 1996.
Recentemente nel 2020 è uscita The Last Dance, una serie tv creata da ESPN e Netflix che racconta la carriera di Jordan partendo dalla stagione dell’ultimo anello, con continui flashback sugli anni precedenti. Il programma uscito in streaming sulla piattaforma Netflix il 19 Aprile 2020 ha avuto recensioni estremamente positive, chiudendo con un totale di 23.8 milioni di spettatori a livello globale, diventando così il documentario ESPN più visto della storia: l’ennesimo, certamente non l’ultimo, successo di Michael Jordan perché come sappiamo i limiti non esistono.