Leggo uno stravagante articolo di Giuseppe Giudice sul Lavoro secondo il quale, polemizzando con un mio precedente scritto, si sostiene che Matteotti era unitario e non riformista. Sarebbe come dire che la Repubblica comunista della Germania dell’Est era democratica perché si chiamava così. E poi si avverte che è sbagliato, come avevo ricordato nel mio articolo, pubblicato su “La Giustizia” della quale sono direttore, spronare la Schlein, che intende ora ispirarsi a Giacomo Matteotti, a fare riferimento al riformismo di Turati, Treves, Prampolini.
Da mettersi le mani nei capelli per lo svarione. Perché il partito socialista che si chiamava “unitario” venne fondato proprio da costoro, freschi di espulsione dal Psi massimalista di Serrati i primi di ottobre del 1922, a pochi giorni di distanza dalla marcia su Roma, proprio perché riformisti.
Con un tempismo davvero straordinario il Psi massimalista e per metà comunista (la mozione di Serrati al congresso di Livorno si definiva appunto socialista-comunista incontrando su questo la puntuale ironia di Filippo Turati) scelse di non dividere un partito in due (tra chi voleva la rivoluzione bolscevica e chi intendeva difendere la democrazia con una proposta di evoluzionismo socialista così ben individuata da Turati nel suo intervento a Livorno secondo il quale “la via lunga é la sola breve”), ma finendo per dividerlo addirittura in tre. Bel capolavoro, non c’é dubbio. Poi lo stesso Serrati decise di passare al Pcdi armi e bagagli coi suoi terzinternazionisti, che nel 1923 avevano perso il congresso, vinto dal più autonomista Pietro Nenni. E nella somma di partiti socialisti questi internazionalisti, esistenti per un breve periodo, facevano quattro.
Questa é storia, caro Giudice. E la storia la si può interpretare, ma non negare. Come non si può negare la netta contrapposizione di Matteotti al comunismo, a suo avviso “complice involontario del fascismo (perché) la violenza e la dittatura predicata dall’uno diviene il pretesto e la giustificazione dell’altro”. Si ricorda opportunamente quel che scrisse Gramsci di Matteotti dopo il suo martirio sullo “Stato operaio” del 28 agosto del 1924, e cioè che “é morto il pellegrino del nulla”, ma si invita a inserirlo nel contesto.
In quale contesto? Matteotti aveva appena versato il suo sangue per la democrazia e uno dei leader comunisti tuttora più apprezzati (che seppe poi ravvedersi ai tempi dei Quaderni) offende così, riprendendo una frase del comunista Karl Radek a proposito di un nazionalista tedesco fucilato nella Rurh dai francesi, un martire del fascismo? E Togliatti che nella nefasta epoca del socialfascismo arrivò a definirlo quasi otto anni dopo la sua morte “un socialtraditore”? Socialtraditore colui che aveva sacrificato la vita per combattere la dittatura? Anche questo inseriamolo pure nel contesto. Torno al tema.
Cosa c’entra Matteotti col riformismo? A parte che si considerava un erede di Filippo Turati, a cui si riferisce il metodo riformista, contrapposto a quello rivoluzionario, l’unitarietà del Psu (poi divenuto Psli e Psuli, a causa dello scioglimento del partito a cui apparteneva Tito Zaniboni, il deputato lombardo che aveva ordito il primo attentato a Mussolini) consisteva nell’unire chi non era comunista e chi dell’Internazionale di Mosca non era schiavo. L’unità socialista si celebrò a Parigi nel 1930 tra il partito di Turati e Saragat e quello di Nenni, che nel 1923 aveva messo in minoranza Serrati, che voleva la fusione del Psi col Partito comunista. Fu una unificazione socialista che resse fino al 1947.
Non fu, come sarebbe stata quella ipotizzata da Giudice nel 1923-24, l’unità tra un partito democratico e un partito subalterno al bolscevismo. Ma l’unità tra due filoni del socialismo italiano in un partito che poi aderirà compatto alla Concentrazione antifascista al contrario dei comunisti. E che nel 1938 condannò duramente i processi di Mosca e il patto tra Stalin e Hitler dell’anno dopo, premessa indiscutibile all’invasione e alla spartizione della Polonia e all’avvio della seconda guerra mondiale.
Quanto alle offese personali rispondo così. Ammesso che possa essere definito un intellettuale, del che ringrazio sinceramente Giudice, rifiuto la qualificazione di organico. Chi mi conosce sa che non c’è nessuno più disorganico di me. Non c’é stato segretario del mio partito (quello che Giudice definisce frutto dei “rimasugli del post craxismo” con un linguaggio simile a quello di Togliatti su Turati) che non si sia lamentato della mia eccessiva autonomia come direttore dell’Avanti. E l’ultimo mi ha per questo anche sostituito. Proprio perchè eccessivamente disorganico.
3 commenti
Grazie Mauro
No ma sto qua è svalvolato duro, se Matteotti non era riformista io non mi sono mai chiamato Andrea
La madre dei cretini è sempre incinta…
Sii superiore…