Premessa
Gettata ai maiali. Gettata ai maiali. Vogliamo dirlo un’altra volta Gettata ai maiali. Non è una carruba, è una donna. Ma per talune persone, talune menti, talune famiglie una carruba vale infinitamente di più. La carruba nutre l’uomo, nutre i suoi figli, la carruba si riproduce, la carruba se ben seccata si mantiene nel tempo, la carruba ti aiuta nel lavoro perché le leguminose arricchiscono il terreno; la carruba soprattutto, non risponde, non si autodetermina, non dice di no, non ti sfida. Bisognerebbe gettare più donne che carrube ai maiali,
Non sarà certo un problema, perché se la donna avesse detenuto un minimo valore, qualcuno a custodirla ci sarebbe stato, ci sarebbe stato forse qualcuno a sorreggerla, come si fa con i fusti della carruba, soprattutto non sarebbe mai stata sola. Perché Maria Chindamo, come tutte le donne che non sottostanno ai codici imposti dalla ndrangheta, e spesso ampiamente sposati da sacche della popolazione che ndranghetista non è, è stata ammazzata dalla solitudine, dall’isolamento e dall’abbandono. La ndrangheta, come tutte le mafie, ha trovato la sua fortuna nel tacito avallo di alcuni, nell’indifferenza e nello sguardo sottratto di molti. Sì la connivenza è stata l’arma letale che ha condotto alla morte Maria. I maiali sono venuti dopo.
Maria Chindamo
Laureana di Borrello (RC), 6 maggio del 2016. Non sono ancora 07.00 quando Maria Chindamo, 43 anni, con la sua macchina bianca si dirige verso la propria azienda agricola dove ha un appuntamento i due operai, in particolare con Alessandro Dimitrov, che risiede all’interno dell’azienda. Maria alle 6.58 transita davanti al benzinaio del paese, le cui telecamere daranno notizia di una macchina di colore grigio che muove nella medesima direzione dell’imprenditrice; pochi istanti e altre due vetture, una di colore blu, si accodano alla prima automobile.
Maria arriva a Limbadi (VV), davanti al cancello dell’attività di famiglia. Il buio.
Sono passati pochi minuti dalle sette, l’operaio, Alessandro Dimitrov è già al lavoro a bordo del trattore, in seguitò motiverà proprio con il rumore del mezzo il fatto di non aver sentito le urla della titolare. L’uomo riferisce inoltre di essere sbucato dalla stradina che conduce al cancello: è distante ma in lontananza riesce a scorgere la figura di un uomo che indossa un berretto bianco con visiera, niente più. All’orario di punta per chi si reca al lavoro, in una strada importante perché immette nella bretella statale, nessuno vede o sente nulla. A volte, la sfortuna.
Dimitrov, avvicinandosi alla Dacia Duster bianca, nota il motore è acceso, la portiera è aperta. Uno sguardo più attento: sangue, sangue sulla carrozzeria bianca, sangue sul muretto accanto, sangue ovunque, sangue e capelli. Alessandro prende il telefono ma non fa in tempo a comporre un numero che un telefono squilla, è quello di Maria. Alessandro risponde, è la signora Pina De Francia -deceduta il 24/12/2022- la madre di Maria; Alessandro prova a spiegarsi, poi congeda la signora dicendo che avrebbe chiamato Vincenzo, il fratello, così fa.
Vincenzo, fratello di Maria, inizialmente ha difficoltà a comprendere cosa sia accaduto, la telefonata lo confonde; si precipita alla terra e sopraggiunge prima dei carabinieri. Lungo il parabrezza, sulla portiera e sulla maniglia sangue, sangue e capelli, così anche sul muretto.
Quel sangue e quei capelli sono l’unica cosa rimasta di Maria, poi l’oblio. Nessuna traccia, chi ha attaccato Maria l’ha fatto con perizia e, con ogni probabilità, indossando i guanti. Cercano ovunque avvalendosi anche dei georadar, poi cani, escavatori, pozzi, terreni e due telecamere, due telecamere che coprono anche l’area antistante il terreno di Maria, proprio dove è avvenuto il sequestro. Appartengono al proprietario dei campi al lato opposto della strada, Salvatore Ascone. Ascone informa le autorità che, malauguratamente, le telecamere non hanno potuto assolvere la loro funzione a causa di manomissione, probabilmente messa in atto dagli aggressori. E dice il vero, le telecamere sono state manomesse da chi ha aggredito Maria, le telecamere sono state manomesse da lui. Lui ha aggredito Maria.
Antefatto
Torniamo al 2015. Sono passati più di 20 anni da quando Maria e Ferdinando, genitori di tre figli, iniziano la loro relazione che negli ultimi anni va logorandosi, sono cose normali, sono cose che succedono. Maria chiede il divorzio e inizia anche ad uscire con un’altra persona, niente di impegnativo, una semplice frequentazione, lui è un poliziotto. Questa frequentazione diventa “ufficiale”. un anno dopo, quando posta sul suo profilo Facebook una foto con l’uomo. Due giorni dopo verrà uccisa.
Per una donna che lascia un uomo, di semplice non c’è mai niente, come dimostrano le cronache, se poi quest’azione è attuata da una donna che compie l’oltraggio di ritenersi libera, e questa libertà, se esercitata in un paesino della Piana di Gioia Tauro, ha un prezzo.
Ferdinando Punturiero non riesce a farsi una ragione di questo matrimonio naufragato, questo va indubbiamente a sommarsi ad altri malesseri che lo porteranno, dopo un precedente tentativo sventato, a togliersi la vita venerdì 8 maggio 2015. Al dolore e alla disperazione, che porta la morte del padre dei propri figli nonché compagno di una vita, in Maria Chindamo si vanno sommando i sensi di colpa che ognuno è portato a farsi anche laddove colpe non se ne hanno, e tutte le responsabilità e le accuse che altri le imputano, a partire dalla famiglia del defunto compagno che taglia i ponti anche con i tre nipoti.
La data
In questa storia, a balzare immediatamente all’occhio sono le date: il suicidio di Ferdinando avviene venerdì 8 maggio 2015, il rapimento e la successiva uccisione di Maria venerdì 6 maggio del 2016. Ad un anno esatto di distanza. Difficile imputare la codesta singolarità al caso. Quanto accaduto alla quarantatreenne calabrese ha tutto il sapore della vendetta. Di una vendetta finemente premeditata: l’8 maggio, nel 2016, cadeva di domenica, un giorno in cui portare a termine questo terribile crimine, appagare il bisogno di rappresaglia sarebbe stato pressoché impossibile.
La domenica Maria sta a casa con i tre figli, spesso vanno dalla nonna, dove sono raggiunti anche dal fratello con consorte e due figlie. Il 9 avrebbe perso di significato e permetteva alla donna di poter trascorrere con la famiglia la “festa della mamma“, festeggiamenti che il loro figlio, fratello, cugino, amico Ferdinando non celebrava più. Il 6 maggio è la data più indicata; è pur sempre un venerdì.
Non si tratta di mera suggestione, oltre a realizzare l’atto a ridosso dell’anniversario e nel medesimo giorno della settimana, sul social network Facebook, il cugino del defunto Ferdinando, pubblica il seguente post di cui l’elemento interessante è la data, ossia non il giorno dell’anniversario della morte del cugino Ferdinando, ma il medesimo giorno del sequestro- omicidio di Maria.
Terra mea
Ricordo bene quanto storsi il naso quando, dalla Procura di Vibo Valentia, il Procuratore capo Mario Spagnuolo, si era detto assolutamente certo di un aspetto: «In questa storia la ‘ndrangheta non c’entra nulla».
Per quanto si possa essere persuasi dalla propria “pista”, è un azzardo sostenere che davanti a quello che pare un delitto d’onore per mandato e dove ci sono interessi economici legati a terreni agricoli nella Piana di Gioia Tauro, la ndrangheta non abbia avuto un ruolo.
Si apprende infatti che, quando sia Maria sia Ferdinando erano ancora in vita, alla loro azienda agricola facevano spesso visita persone che da un lato esercitavano pressione su Maria per la vendita delle terre, di grande interesse per alcuni imprenditori agricoli locali, dall’altro spronavano Ferdinando a punire l’irriverenza e il grande affronto all’onore dell’uomo e della sua famiglia da parte di Maria.
Nonostante la ndrangheta sia la mafia più potente al mondo, un’organizzazione che gestisce un circolo di soldi annui sufficienti per due finanziarie, nonostante vada ad inserirsi negli affari e nei settori più all’avanguardia, il forte radicamento territoriale e l’attaccamento alla famiglia e alla terra, rappresentano un unicum. Il possesso della terra e la bramosia di detenerne sempre di più ha provocato non pochi morti nella storia calabrese.
I terreni sono sempre stati importanti per le politiche mafiose nei territori del sud. In passato mantenerli in situazione di latifondo, non produttivi, permetteva di detenere il controllo su una popolazione che veniva mantenuta in uno stato di povertà e difficoltà, quindi di necessità. Oggi il terreno può assolvere molteplici funzioni e contribuire ad arricchire la Società, utilizzando questi possedimenti ad esempio come discariche di rifiuti nocivi piuttosto che importanti fonti introito mediante la conversione della destinazione dei lotti: da agricoli ad edificabili, grazie alla presenza mafiosa nelle amministrazioni e a membri della Santa che tessono le giuste relazioni.
Le donne di Calabria
Essere calabrese ed essere una donna è difficile, più difficile che altrove e negarlo sarebbe ipocrita. In generale la condizione femminile nelle regioni del mezzogiorno d’Italia è tendenzialmente più complessa e, se dalle città ci si sposta in certe realtà montane e rurali il gap con il resto del Paese è notevole. La donna deve assolvere ai ruoli che la mentalità arcaica fortemente patriarcale le conferisce. Ovviamente nel XXI secolo anche sull’Aspromonte la donna non è reclusa ma ha un proprio titolo di studio e conseguente professione, certo è che questo non deve interferire con il compito principale di gestire la casa e la prole. La distanza non è legata al tenore di vita o al livello di istruzione, bensì a come la donna, anzi la “femmina” è percepita nella società e cosa la controparte maschile ritiene essa possa o non possa fare e cosa sia lecito che lei dica o non dica.
Il tutto va assunto non come totalità, ma in termini percentuali che, se confrontati con la media italiana sono oggettivamente più elevati. A porre un importante freno all’emancipazione della donna, è la presenza capillarmente diffusa della ndrangheta. La presenza ndranghetista è notevole e in Calabria la connivenza si svela sovente fortissima, soprattutto nei mandamenti. la Piana di Gioia Tauro (Mandamento Tirrenico), nella Locride e nei paesi dell’Aspromonte (Mandamento Centro) e le zone della “mamma” (Mandamento Jonico). Spiccano proprio le provincie tra cui si muove Maria: Reggio Calabria e Vibo Valentia.
Nella ndrina la donna riveste un ruolo che lungi dall’essere paritario. La sottocultura che caratterizza certe sacche di quella popolazione, relega la donna di mafia a compiti ben precisi che, tuttavia, sono determinanti per il mantenimento degli equilibri. È la donna la depositaria e la tramandatrice dell’odio tra famiglie.
La pace o la guerra è decisa proprio dalle donne: una corretta politica matrimoniale -calcolata e non basata sui sentimenti- può essere rilevante per scongiurare guerre, come la guerra di ndrangheta che ci fu nel 1991. Al capo opposto sono sempre le donne che, con i “panni del parente ucciso, insanguinati sulle ginocchia”, incitano ed aizzano gli uomini della famiglia a vendicare il caro defunto. La faida, nella ndrangheta, è una forma di giustizia privata, regolamento di conti, che prevede l’eliminazione fisica di tutti i componenti di sesso maschile della ndrina rivale.
Tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ’90 le faide infiammarono di famiglia in famiglia, lasciando un’impressionante scia di morti in tutta Italia. Al termine della faida alcuni ordini furono ribaltati, determinando l’affermarsi di nuove famiglie all’apice del potere.
Ma Maria non viene da una famiglia mafiosa, i Chindamo non fanno parte dello stesso ceppo di quei Chindamo, oggi a capo della locale che si affermano al vertice della locale dopo la faida del 1988-1991 tra i Tassone-Cutellè- Albanese e i D’Agostino-Chindamo. Faida che fu interrotta per intervento diretto di capi locale dai cognomi prestigiosi nel panorama criminale: i Pesce, i Mancuso, i Bellocco e i Piromalli.
Le indagini
Fin dalle prime ore gli inquirenti hanno dimostrato una certa sicurezza nel rivolgere l’attenzione alle questioni familiari. Come già riportato, il procuratore di Vibo Valentia, Mario Spagnuolo, si era detto assolutamente certo di un aspetto: «In questa storia la ‘ndrangheta non c’entra nulla». La storia che oggi conosciamo è ben diversa.
Con il pretesto ormai vetusto della “paura”, nessuno ha fornito notizie. Questo fino alla predica, durante una funzione, di padre Pino de Masi, da anni impegnato nel contrasto alla criminalità organizzata. Qualcosa evidentemente è riuscito a muove: al parroco giunge una missiva anonima, un’altra sarà recapitata alla redazione di Chi l’ha Visto?
All’ingresso di uno dei terreni appartenenti alla famiglia Punturiero, già passati in rassegna dagli escavatori incaricati dalla procura, qualcuno ha deposto delle rose rosse, come a segnalare il luogo dove giacciono i resti della donna. Per finire: una un’automobilista, che percorreva detto tratto, riferisce che quella mattina, transitando nella via, nota la macchina della Chindamo e, a seguire, un’automobile nera di bassa cilindrata, non riesce a vedere altro perchè il guardo della testimone viene successivamente occluso dall’immissione di un fuoristrada scuro e molto sporco, proveniente da una strada inter-padronale, che le si para davanti.
Nonostante questi timidi accenni alla collaborazione le indagini, che tutti riferiscono svolte in modo impeccabile, stagnano, fino all’arrivo del nuovo procuratore: Camillo Falvo: l’ipotesi ndrangheta non è ora più ritenuta remota, al contrario, il magistrato lo ritiene un elemento ad alto coinvolgimento, un primo arresto avviene nel 2019, si tratta proprio di Salvatore Ascone, il proprietario del terreno di fronte e della villetta con le telecamere dismesse. Viene poi rilasciato per insufficienza di prove, restando comunque indagato.
La svolta
Nella seconda metà del 2020 Antonio Cossidente, pentito potentino già affiliato al Clan dei Basilischi, e detenuto nello stesso penitenziario di Emanuela Mancuso – il disonore dell’importante ndrina che ha deciso di collaborare con la giustizia-, prende sotto la sua ala il figlio de “l’ingegnere”, il boss Pantaleone Mancuso. È dal giovane, classe 1989, che apprende come, dell’esecuzione di Maria Chindamo sia coinvolto un certo Pinnolaro, grosso trafficante di cocaina della zona, proprietario di diversi terreni limitrofi a quelli della Chindamo, e determinato ad impossessarsene.
Classico degli affiliati è dotarsi di un soprannome, sia per motivi di sicurezza e tutela personale, sia per l’elevatissimo numero di casi di omonimia. Si scopre dunque che “u Pinnularu” (il Pinnolaro) altri non è che il 53enne Salvatore Ascone, che avrebbe utilizzato la data dell’anniversario del suicidio di Ferdinando Punturiero, per depistare e indirizzare le indagini verso altri responsabili.
È di questi giorni la notizia che il fascicolo di Maria Chindamo trasmesso dalla procura di Vibo Valentia a quella di Catanzaro, sotto l’egida di Nicola Gratteri ed entrando a tutti gli effetti nell’operazione Maestrale -Carthago, ha condotto finalmente ai primi arresti, anche grazie alle informazioni rivelate dal superpentito Emanuele Mancuso. Le ultime novità chiarificano alcuni punti, ovvero la convergenza tra il delitto d’onore su mandato e la lupara bianca legata alla volontà di esponenti della ndrangheta di acquisire i terreni di proprietà della Chindamo. La figura di Ascone rientra in questo scellerato accordo tra le due parti e in un’intercettazione pare affermi “per due spiccioli mi sono dovuto fare carico del corpo”. Il mandante è Vincenzo Punturiero, il suocero.
Si ricorda che del corpo di Maria Chindamo non resta nulla: data in pasto ai maiali, quel che resta è tritato con un grande trattore cingolato.
Conclusioni
Si sente spesso parlare di errori compiuti in fase di reperimento prove e in fase di indagine; il caso di Maria Chindamo è uno di quelli in cui, al contrario, tutto è stato repertato ed indagato a regola d’arte. A frenare le indagini è stata, ancora una volta, la reticenza di quella parte di cittadinanza non mafiosa ma che con il proprio silenzio si fa connivente.
Possiamo fingere e raccontarci qualche storiella ma, in certe realtà, quello che realmente accade, lo sanno anche alla scuola materna, lo sanno sempre tutti ma, altrettanto, sono tutti consci che “non si parla” perché. è questo l’insegnamento impartito di generazione in generazione. Più di ogni altra realtà intrisa di malavita organizzata, la ndrangheta risulta quella più efficace ed efficiente, estremamente organizzata e seriamente inter-collegata che è l’unica mafia al mondo a essersi potuta dotare di una sovrastruttura quale La Santa, senza correre alcun rischio.
Nella vicenda di Maria Chindamo, se vogliamo rintracciare l’errore che ne ha determinato il protrarsi, esso va individuato nell’unidirezionalità imboccata dal procuratore Mario Spaguolo; lo stesso che, nel 2019, è finito sotto inchiesta dimostrando ancora una volta la mia tesi che -permettete il francese-, davanti a realtà fortemente penetrate dal sistema ndranghetista, chi non riconosce detto sistema o è un colluso o è un coglione.
Laureana di Borrello e Limbadi sono due paesi situati nella Piana di Gioia Tauro, zona riconosciuta a livello nazionale come una delle più impregnate di malavita organizzata dsm. Il comune di Limbadi, nel 1983, fu il primo sciolto a livello nazionale, la ndrina di maggior rilievo è quella dei Mancuso, che vantano la loro presenza in due locali della Lomabardia: Mariano Comense e Fino Mornasco, dove però non assolvono ruoli apicali, detenuti prevalentemente dalle famiglie del mandamento della locride.
Il ruolo della ndrangheta nell’omicidio di Maria Chindamo era scontato fin dall’inizio, a causa della tipologia di omicidio. A Laureana di Borrello è presente la Locale, va da sè che dal momento che il suocero di Maria Chindamo non esegue personalmente il delitto d’onore ma incarica una terza persona, ovviamente questa non può operare senza il benestare del Capo-locale. L’organizzazione avrebbe avuto in ogni caso un ruolo, anche se non si fosse sommata l’interessante prospettiva di acquisizione dei terreni.
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