di Collettivo Simbiogenetico Rebis
Cosa ci dice il revival che da un po’ di anni a questa parte si ha di Manifesto Cyborg, prezzemolino in molte discussioni che vanno dal femminismo al queer, dal transumanesimo alle AI?
Prima di tutto che la suggestione del cyborg, nonostante tutti i discorsi che si possono fare sull’umanità come specie protesica, è ancora molto forte e Noi aggiungeremmo anche fikissima senza ombra di dubbio.
La seconda è che se è vero che siamo dell’epoca delle post-verità, il postmodernismo Donna Haraway non l’ha di certo superato, ma anzi ha solidificato come saggio scientifico un pezzo di ottima speculative fiction (o theory fiction che dir si voglia, non ci attacchiamo alle etichette). Insomma è più vicina a Ursula K. LeGuin che a Deleuze, e probabilmente nei romanzi la prima è più attaccata alla realtà di Haraway.
Sicuramente sempre di Ambigue Utopie si parla, ma in quella di Haraway è difficile districarsi. Dovremmo confrontarla più probabilmente con Neuromante, romanzo che precede il Manifesto di un solo anno (1984), è considerato il primo vero testo cyberpunk ed ha in comune con il Nostro la osticità di lettura.
Dunque Haraway ci lancia una suggestione pazzesca, senza chiarificazione di concetti e soprattutto senza un punto di arrivo (non un punto finale, un punto qualsiasi, anche uno).
In questo groviglio emerge, anzi no, ci viene chiaramente detto, che il cyborg è un elemento ironico: se proprio si vuole prendere la maternità del trolling che lo faccia pure, in effetti è di sicuro tra i fenomeni più impattanti dell’ecosistema cyber del nostro decennio. Probabilmente potrebbe anche essere un’ironia, un bug inserito inizialmente nell’ambito accademico per dare uno scossone ad un ambiente stantio. Il problema, come spesso accade, è che troppi layers si sovrappongono finché non tornano zero (o 255, per restare in tema) e ritorna un testo che è verità teorica assoluta, tant’è che Noi Rebis ci siamo ritrovati a scrivere un paper in università sostenendo che Manifesto Cyborg finalmente supera la tanto sofferta divisione tra femminismo radicale e femminismo liberale (e non ce lo aveva mai detto nessuno??) pur di compiacere il barone accademico foucaultiano di turno (per chi se lo chiedesse, esame passato a pieni voti).
Non è chiaro neanche il discorso sulla soggettività e l’oggettività: il concetto sembra quasi banale ma servivano così tante pagine e tante parole per esporlo, rendendolo più confusionario che altro?
E ancora, in quanto biologa, riesce veramente a distaccarsi dall’oggettività scientifica e ad appoggiarsi ai saperi situati, ovvero la conoscenza basata sull’apporto degli individui?
Sembra che in questa parte si sentano echi di prospettivismo nietzscheano: ci sono punti di vista più “accurati” di altri, e l’accuratezza (intesa come insieme di verità minori che possono essere raccolte in una tendenza al vero) non viene espunta relativisticamente dalla conoscenza, ma si tenta una ricostruzione contestuale dei saperi e delle credenze (delle ideologie, se vi vuole): in che contesto materiale è sorta una “verità”? quali sono i bias di saperi apparentemente neutri? qual è la politica delle tecnologie contemporanee, quali limiti sociali e filosofici stanno rompendo? Questa oggettività quindi va sempre messa anche nei saperi situati. Questa interessantissima e bellissima teoria però la estrapoliamo e la reinterpretiamo Noi con la nostra molteplicità di coscienze. La Haraway in nessun punto è così lineare, chiara e indirizzata verso un punto. La vaghezza e la confusione regnano sovrane e qui come altrove non sembra esserci una direzione né un progetto (politico e non).
Il grande dramma di Manifesto Cyborg è che non è un manifesto, né politico né filosofico, e ce lo ricorda in ogni riga del libro.
Il Cyborg, ci viene detto, è anche una metafora, culturale e sociale. Ennesimo indice di un’indagine che non è materialistica, non mette in discussione il realismo di partenza e ha molta fiducia sulla modificazione delle cose. E’ anche molto difficile unire una teoria postumana e iper tecnologica con il femminismo o lotte per soggettività vulnerabili nella società. Chi veicola queste tecnologie?, si domanda Haraway stessa.
Ma noi rilanciamo, chi garantisce il mito e la discendenza cyborg? Chi ci dice che verrà accolta veramente?
Si formerà un patriarcato 2.0 o un automatizzato comunismo queer? Perché sembra essere escluso a priori un distopico futuro Landiano (stiamo retrodatando volutamente)? Se non altro ha anticipato il grosso problema di tutto il mondo accelerazionista e transumanista di sinistra.
Il problema della creazione di ogni Mito, per quanto ambizioso e fantasioso, originale, come quello del Cyborg con la sua compromissione di ogni identità ed essenza, è il suo grado di aderenza alle cose reali. La potenza finzionale, la hyperstition liberatoria di Haraway possiede (e si torna allo spettro Nietzschiano, ma anche già Spinoziano in un certo senso) la potenza adeguata per (auto-)affermarsi? Chi deve farsi carico della rottura dei limiti imposti al corpo capitalista? Quanto estensivamente tale suggestione queer e cibernetica può innestarsi nei desideri (sempre questi il punto focale dell’agire politico) delle masse impoverite? Detta cinicamente e con poche palle: il mito del cyborg è un fungibile strumento politico-filosofico o una filastrocca retorica per gli intellettuali di sinistra, annoiati dalla solita letteratura marxiana o critica? Haraway sembra far assurgere il Cyborg metaforico/reale al pantheon dei rivoluzionari progressisti, ma chi è in grado di assicurarne la lealtà?
Dopotutto il Cyborg, così come il tecnocapitale, il postumano, e tutto ciò che c’è di estremamente alieno all’antropomorfo e antropo-logico, è una dinamica iperoggettuale (inteso come un mutamento di grande profondità e difficilmente intellegibile per la sua complessità sistemica ) ben poco prevedibile, per cui non esistono garanzie o esperienze comparabili per questo concetto-creatura, un monstrum che potrebbe rivelare la sua forma compiuta nei termini di un military-industrial complex (dopotutto il cyborg è un’invenzione innanzitutto militare), di una mass surveillance (i sistemi cibernetici utilizzati per il controllo dell’informazione), di una cyborgizzazione elitaria (pedovampirismo multimiliardario e manipolazione genetica in vista di una nuova aristocrazia corporativa non pare una cosa così distante… https://philstarlife.com/news-and-views/258689-multimillionaire-anti-aging-project-infusing-blood-from-17-year-old-son ), e così via, alla sfiga non c’è mai fine.
La stessa carica rivoluzionaria e filosoficamente sconvolgente della categoria cyborg come l’ibrido, come l’assolutamente assemblato, il ricombinante continuamente mutaforma, potrebbe essere sì rilevante per una riesaminazione storica del passato volta a comprendere come la modifica di noi stessi e il continuo gioco di manipolazioni tecnologiche tra l’umano e il suo ambiente lo abbiano (ri)strutturato come soggetto (dopotutto, non è già l’invenzione dell’occhiale da vista una forma di impianto proto-cibernetico?), ma è anche vero che l’utilizzo del cyborg oggi potrebbe trovarsi ad essere umano-troppo-umano: piuttosto che generare lo scontato (pur sempre strafigo) corpo cyberpunk della fiction ormai nota, con tanto di impianti cromati e abilità alla Johnny Mnemonic, la pratica cyborg sembra rinforzare all’ennesima potenza problemi fin troppo vecchi, trasfigurandoli al limite del demoniaco; lo Stato, la polizia, le multinazionali, i colossi digitali, paiono far tutti uso del cyborg in modo tutt’altro che emancipatorio. Dovrà quindi il ribelle del futuro essere cyborg per combattere o combattere cyborg? Forse entrambe le cose. Quel che c’è di sicuro è che l’accelerazione tecnologica e la conseguente sempre maggiore permeabilità di ogni confine socio-politico e fisico-psicologico producono senza sosta un’escalation del conflitto globale (orizzontale o verticale che sia); e l’escalation si propaga sia su un piano estensivo, nel senso di ambiti e luoghi in cui il conflitto ha luogo, sia intensivo, inteso come quantitativo di violenza (implicita ed esplicita) e di energia richiesta per la propria continuazione. Ma lo spazio da occupare prima o poi verrà esaurito, così come le risorse necessarie alla sua occupazione, e il disordine raggiungerà un tetto massimo… quali forze occuperanno allora lo scenario?
Se i primi due saggi, compreso il Manifesto, sono avvolti da una nube che crea un’estrema confusione nel lettore e nella lettrice, il terzo saggio contenuto nell’edizione Feltrinelli, che parla di temi specialistici e in cui Haraway è specializzata, e cioè la biologia, è paradossalmente molto più chiaro, nonostante sia più difficile a livello di contenuti. Donna Haraway sguazza benissimo nel suo elemento e rende sempre più evidente l’interrogativo: ma nei primi due saggi, sa di cosa parla? Ha dimestichezza con l’argomento o riempie di parole delle questioni che sono ancora vaghe nella sua testa? La Nostra è una provocazione ma anche un legittimo dubbio quando ci poniamo di fronte ad un’opera che ha avuto così tanta eco.
Ovviamente non è tutto da buttare quello che è nel libro. I temi portati sono fondamentali e alla Haraway spetta il merito di aver dato una dimensione accademica a tutta una serie di suggestioni che avevano affollato le fantasie (vedasi tutta la letteratura fantascientifica) e le preoccupazioni del movimento femminista negli anni precedenti. In particolare le sue riflessioni sulla miniaturizzazione della tecnologia e della pervasività tecnologica sono più una iperstizione della nostra contemporaneità (il cyborg è più vicino al rapporto umano/tecnologia odierno) che non negli anni ‘80, quando è stato scritto il libro.
Dunque più che un Manifesto vero e proprio, sembra più un libro vibes, iconico più in senso estetico che politico e teorico. Anche la scrittura stessa è quasi proto-accelerazionista, è un’opera scritta come se fosse una raccolta di tweet, e questo, a nostro dire, potrebbe farci rivalutare l’intera lettura dell’opera.
*tutto quello che dice donna haraway*