Di Lucia Abbatantuono.
Per qualcuno forse sì, comunque è un oggetto sconosciuto.
L’attuale Ministra del Lavoro ha presieduto per 18 anni l’Ordine dei consulenti del lavoro. Oggi al suo posto c’è il marito. Ma non è questa la notizia (ormai…). Il punto è che proprio la Fondazione Studi Consulenti del Lavoro ha appena pubblicato un interessante dossier che non farà tanto piacere alla Ministra. Né alla capa del governo. I dati sembrano sbugiardare alcune delle più veementi dichiarazioni degli esperti destrorsi che continuano a temporeggiare sulla questione del salario minimo, cibo indigesto per la maggioranza antisocialista. E sembrano anche gettare ombre sull’operato di alcuni sindacati. Il dossier riporta, infatti, che oltre un terzo dei 61 principali contratti collettivi nazionali firmati da Cgil, Cisl e Uil prevede minimi retributivi sotto i 9 euro all’ora. Tra l’altro si tratta di un valore stimato per difetto, perché nel calcolo sono considerati sia i ratei di tredicesima ed eventuale quattordicesima, sia il TFR, cioè quegli elementi del trattamento economico complessivo che PD, M5S, AVS e Azione hanno escluso dalla loro proposta di legge.
Questo a dir poco imbarazzante documento, il cui titolo “Salario minimo in Italia: elementi per una valutazione” promette solide diatribe, è stato elaborato sulla base di dati INPS e CNEL e avrebbe voluto dimostrare come un minimo salariale legale potesse rivelarsi “inutile e finanche dannoso” ai fini del recupero del potere d’acquisto delle buste paga; ma si è trasformato in un boomerang.
Il dossier in questione, infatti, piuttosto che avvalorare la funzione di tutela della contrattazione collettiva, finisce col gettare una triste luce su quelle decine di CCNL firmati dalle sigle più rappresentative, che riportano retribuzioni orarie di partenza decisamente basse: ben 22 contratti sui 61 selezionati, applicati in totale a una platea di circa due milioni di lavoratori, sono inferiori ai 9 euro orari. E il minimo effettivo in busta paga è ancora più basso, considerando che si tratta di cifre “gonfiate” dai ratei di mensilità aggiuntiva e di TFR.
Sconcertanti alcune specifiche evidenze, come quelle relative al contratto collettivo dei dipendenti del settore socio-assistenziale, che interessa oltre 160mila lavoratori impegnati nelle comunità di accoglienza, nelle RSA e nei centri per persone con disabilità: il contratto prevede un minimo di 8,6 euro tutto compreso, per una cifra mensile di poco superiore ai 1.100 euro.
Non stanno meglio gli operatori della gestione aeroportuale, il cui salario orario si ferma a 8,9 euro così come quello degli autoferrotranvieri del trasporto pubblico locale, dei dipendenti di società dei servizi ambientali e delle P.M.I. della comunicazione e dell’informatica. Poco più basso il salario dei lavoratori delle cooperative del settore socio sanitario e dei servizi di pulizia e servizi integrati (circa 600mila in totale), così come gli occupati nella grafica e nel settore pelli, il cui salario orario scende a 8,8 euro; nel tessile e nell’abbigliamento il minimo è 8,7. Nelle cooperative e nei consorzi agricoli la base è di 8,4 euro l’ora. Percorrendo la scala in discesa troviamo ancora i centri benessere e di estetica o piercing (8,3 euro lordi all’ora); l’industria calzaturiera (7,9 euro di minimo). L’industria armatoriale, quella del vetro e quella degli operai agricoli e florovivaisti risultano ancora più avare con salari orari minimi che toccano perfino il baratro dei 7 euro.
La Fondazione dei consulenti del lavoro ammette anche l’esistenza di “contratti collettivi comparativamente più rappresentativi, come il Ccnl Vigilanza Privata, che hanno minimi retributivi inferiori”, rievocando il contratto da fame dichiarato anticostituzionale dalla Cassazione e solo di recente rinnovato con un increscioso aumento di pochi centesimi all’ora. Anche la Fondazione ADAPT voluta da Marco Biagi, ha da pochi giorni mostrato come i livelli di inquadramento più bassi dei contratti della logistica e trasporto merci, della distribuzione moderna organizzata, del turismo e dei pubblici esercizi hanno minimi tabellari orari ben inferiori a 9 euro.
Detto ciò, la tanto decantata apertura della premier a un confronto ci sarà? Molti, e scottanti, sono i temi sui quali dibattere entrando nel merito. Non si tratta solo di fissare un livello minimo salariale, ma anche di accordarsi sulle eccezioni settoriali, sulle età dei lavoratori, o ancora sull’effettività dell’eventuale convenienza che lo Stato riconosca un aiuto pubblico alle imprese proprio in vista dell’adeguamento al minimo, proprio come prevede la Sinistra nelle sue proposte.
Determinare un salario minimo legale dovrebbe essere considerato non un traguardo, ma solo il primo passo per affrontare globalmente l’emergenza del lavoro mal retribuito. Bisognerebbe al contempo avere il coraggio e la lungimiranza di prendere finalmente di petto anche la questione parallela del part time involontario e dei contratti pirata, che sembrano essere (in volume) minoritari ma solo perché ad oggi le norme consentono ai datori di lavoro di comunicare all’INPS l’adozione del contratto principale e poi, nei fatti, applicarne al lavoratore un altro, peggiorativo. Questo escamotage comporta che alla fine l’effettività dei minimi contrattuali è assai relativa: del resto, diversamente non si spiegherebbero quei tre milioni di lavoratori che, secondo l’Istat, hanno una retribuzione oraria inferiore ai 9 euro lordi.
Come, del resto, sono proprio i consulenti del lavoro a ricordare: bisogna “risolvere il problema della sufficienza della retribuzione ai sensi delle previsioni contenute all’articolo 36 della Costituzione“. Che suona benissimo, in teoria, ma in pratica stona con l’attuale antifona politica generale. Senza dubbio, un aumento repentino e tout court dei salari mettere in crisi aziende e settori produttivi, ma per questo le parti sociali e la contrattazione collettiva devono puntare alla progressività degli aumenti, considerando (magari) anche l’utilizzo di benefit a supporto delle prestazioni – come suggeriscono gli stessi Consulenti del lavoro a chiosa del loro dossier, arrivando perfino a definire “sacrosanto” l’innalzamento della retribuzione oraria.
Uno schieramento tecnico che sembra voler rivendicare la professionalità degli operatori del settore rispetto alla palese incapacità dei governanti: recuperare il valore dei salari significa non solo tagliare il cuneo fiscale, ma anche migliorare la detassazione collegata alla contrattazione collettiva, che dovrebbe a sua volta essere più rappresentativa e “di qualità”, per rispondere agli effettivi bisogni dei lavoratori.
Se questa è la ricetta, perchè temporeggiare?