di Alessandro Palumbo.
In morte di Napolitano, ultimo grande vecchio della prima repubblica, esponente di una categoria di uomini totum rei publicae, assorbiti completamente dalla politica attiva, poco amato dai suoi vecchi compagni di partito e anche ai nostri giorni, contestato a destra e a sinistra per aver interpretato il suo ruolo di Presidente della Repubblica in modo attivo, imprimendo la sua cifra alle svolte del suo settennato (diventato poi quasi nove anni).
Mandò a casa Berlusconi, ma si rifiutò di andare alle elezioni anticipate come voleva il suo partito così salvando probabilmente il Paese dalla bancarotta.
Da Presidente della Camera non difese in maniera convinta il Parlamento dalla cagnara antipolitica creata da Tangentopoli, seguendo il suo carattere di politico dalle idee chiare, ma dall’atteggiamento prudente.
Napolitano sin dagli anni 60 ha timidamente tentato di portare il PCI il più vicino possibile alle socialdemocrazie europee, mai vergognandosi dell’epiteto migliorista, ma mai capace di imprimere una svolta coraggiosa alle sue posizioni, una sola volta prese pubblicamente le distanze da Berlinguer e dalla sua politica di orgoglioso isolamento e di diversità antropologica pagando con l’ostracismo del suo stesso partito.
Con lui, Amendola, Chiaromonte, Macaluso il PCI ha espresso il meglio della cultura riformista,
La sua morte rende obbligatoria una riflessione su cosa rimane della cultura riformista nella sinistra italiana. Una cultura che nella prima repubblica ha visto politici, riviste culturali, movimenti di opinioni che hanno arricchito il dibattito politico. Mondoperaio, Critica Sociale, le Ragioni del Socialismo, il Club Turati, la Casa della Cultura, Tikkun, il PSI, il Partito Radicale, il “migliorismo” meneghino, ormai sparite o ridotte a ben poca cosa, non solo dal punto di vista della quantità, ma anche della qualità.
Il vero problema della opposizione alla destra governante è la assoluta mancanza di una cultura riformista che sia capace di produrre una classe politica, una visione culturale e una presenza nella società civile.
Il PSI non esiste più, il movimento radicale è frantumato in diversi tronconi in lotta tra di loro, la parola riformista è talmente usate e abusata che ha perso ogni significato, la usano come passepartout in ogni occasione. Il vero problema del PD non è la Schlein che ha idee ben chiare, un movimentismo di stampo ecologista con grande attenzione ai diritti civili e alle minoranze con qualche strizzata d’occhio al populismo massimalista di sinistra, il vero problema è che cosa propongono, quale progetto hanno i cosiddetti riformisti del PD? Riescono a elaborare proposte convincenti o non si propongono piuttosto come un blocco di potere che tutt’al piu può portare in dote una certa capacità amministrativa? Peraltro tutta da verificare e ben lontana dalle amministrazioni riformiste della prima repubblica. Il coacervo riformista del PD sinora non ha prodotto ne cultura, ne politica, i loro rappresentanti sono una figura sbiadita, incapaci di lanciare una sfida vera alla governance del partito e soprattutto alla società civile. Quale visione del mondo del lavoro? Del tema dell’impresa? Cosa pensano dell’intelligenza artificiale? Del futuro dell’Europa, del mondo del terzo settore, della globalizzazione, del rapporto col Terzo Mondo, temi totalmente assenti o declinati come slogan, tutti ad aspettare una mossa falsa della Schlein per riprendersi il partito, ma per farne che cosa? Questa totale incapacità culturale e politica rappresenta un serio problema anche per quel residuo di riformismo fuori dal PD che si trova senza interlocutori capaci per costruire un blocco sociale e politico. Il governo perde consensi, ma le opposizioni non avanzano, aumentano i delusi, gli astensionisti.
Quel che rimane del mondo socialista sempre più in preda ad un cupio dissolvi o a un malinconico reducismo, Calenda con la sua visione tecnocratica figlia di un bonario paternalismo e di un aristocratico disprezzo, Renzi abbagliato da un centro che esiste solo nella sua testa e che non può rappresentare il riformismo e il socialismo liberale, tutti compresi nella disperata ricerca di sopravvivenza, tutti insieme non riescono a produrre nessuna seria proposta e non trovano nella asfissia progettuale dei riformisti del PD un elemento di attrattività.
Ma riprendendo il motto gramsciano fatto proprio dai socialisti nel loro periodo più fecondo facciamo perno non sul pessimismo della ragione, ma sull’ottimismo della volontà sperando che la morte dell’ultimo vecchio della prima repubblica apra una riflessione non su come sopravvivere, ma su come trovare una unità di intenti per metter mano ad una riflessione politica e culturale che possa produrre un percorso credibile, una visione del futuro alternativa allo sterile movimentismo della Schlein, ma soprattutto a questa destra incapace e pericolosa.
Alessandro Palumbo