Sull’attività (retribuita) di lobbying a favore della corrotta e retrograda monarchia del Qatar si è imbastita una campagna di esecrazione che vede imputati la vice-presidente dell’Unione Eva Kaili, un paio di dirigenti ex comunisti (del rango dell’ex segretario della Cgil di Milano Antonio Panzeri), parlamentari pidiessini e sicuramente una rete di socialisti europei.
A cominciare le danze sono stati i leader dell’Unione europea. Ma c’è un limite a tutto. Come si fa a non sorridere quando la presidente Ursula von der Leyen si occupa di queste faccende? Si tratta, infatti, della stessa persona che ha siglato contratti multimiliardari per l’acquisto di vaccini anti-Covid con grandi imprese farmaceutiche, come la mezzo tedesca Pfizer. Alla richiesta di esibire il prezzo per potere fare una valutazione comparativa e stabilire quale accordo fosse più vantaggioso, prima ha negato l’accesso alle carte e poi e ha mostrato testi pieni di cancellature e correzioni.
In secondo luogo, la stessa signora che oggi alza il tiro (a ragione, dico subito) contro le spudorate pratiche lobbistiche della sua vice, di Panzeri e Cozzolino cova a tutt’oggi il silenzio su un suo connazionale, il capo della social democrazia ed ex cancelliere Gerhard Schröder. Egli è stato anche presidente della commissione societaria di Nord Stream AG e del consiglio di amministrazione Nord Stream 2 AG, i due gasdotti che uniscono la Russia alla Germania. Appena ha lasciato la presidenza del governo tedesco si è insediato alla testa della maggiore società petrolifera dell’ex Impero sovietico, Gazprom. Notoriamente svolge un’intensa attività di infiltrazione presso i governi e la stampa, e anche di spionaggio. A quale peso d’oro è stato pagato il silenzio mantenuto sull’intera vicenda dall’Unione europea?
Una vicenda penosissima che ha ancora una volta gettato un’ombra livida su questa costruzione europea.
In Italia il Pd e i giornali ad esso collegati (da Repubblica al Domani e al Fatto Quotidiano) invocano pulizia, trasparenza, sanzioni, nuove regole istituzionali. E al solito agitano come esempio da seguire, anzi modello, il comportamento dell’ex segretario del Pci di Enrico Berlinguer. In una nota intervista a Eugenio Scalfari sollevò la cd “questione morale” nei confronti dei partiti (ma l’allusione era ai socialisti di Craxi) e di quanti nella sinistra intendevano fare politica come professione.
In realtà intervistato e intervistatore affrontarono un tema importante senza avere scoperchiato i cadaveri che entrambi avevano nei rispettivi armadi.
Per essere presi elementarmente sul serio Berlinguer e Scalfari avrebbero dovuto fare una premessa, che ancora oggi nessuno degli opinionisti o dei dirigenti del Pd ha il coraggio di fare: condannare senza mezzi termini ogni forma di finanziamento di cui il Pci e successivamente il Pd sono stati destinatari da parte di singole persone, imprese private o pubbliche, paesi stranieri ecc.
Berlinguer non l’ha fatto per due ragioni. La prima; non poteva ripudiare il passato, a cominciare dalla fondazione, nel 1921, del partito che dirigeva. La seconda: ha sempre ritenuto che i paesi del cd “socialismo reale” rispetto al consumismo sfrenato e chiassoso dei paesi capitalistici potevano contare su una vita, su costumi, su un consumo del tempo libero morigerato.
Di qui egli ricavava la prova della superiorità etica dei paesi comunisti. Non ha mai considerato che questi comportamenti discreti, sobri erano l’esito del carattere dispotico del comunismo, dell’uso tirannico, corrotto, persecutorio del potere come della povertà dominante al punto da provocare paura, indurre i cittadini oppressi ad ogni possibile contenimento dei loro bisogni.
A incoraggiare Berlinguer sulla strada impervia di costruire la più estesa sfera di autonomia da Mosca e contemporaneamente di esaltare l’etica francescana dei popoli all’Urss soggetti è stato il suo segretario Antonio Tatò.
In lui, leale compagno del Cominform, è rimasta sempre incoercibile lo spirito di scissione in base al quale i comunisti si sono separati dai socialisti. Coerentemente ha sempre insistito (vincendo la partita) perché Berlinguer perorasse una fantastica “terza via”, diversa cioè da quella storicamente incarnata dal comunismo e dalla socialdemocrazia.
Ancora oggi il Pd (un partito-agenzia-di-collocamento assai raffazzonato tra pezzi della sinistra democristiana e del berlinguerismo) conserva come un trofeo e valore identitario la distanza dalle socialdemocrazie europee, e una relativa avversione. Si tratta di un punto programmatico preciso. Direi l’unica cosa che lega i sopravvissuti dei due vecchi partiti.
Per questa ragione, e per quel che vale la mia opinione personale, non ho mai capito come un socialista liberale o un liberalsocialista possano collaborare col Pd e peggio ancora votarlo. Al pari dei comunisti, i loro eredi, considerano non solo Bettino Craxi, ma i laburisti inglesi, i socialisti francesi e i social democratici tedeschi degli avversari storici, se non proprio dei nemici.
A riflettere su questi argomenti spinge la riedizione recentissima del volume di Gianni Cervetti, L’oro di Mosca. Si tratta di un saggio equilibrato e insieme coraggioso. Ne va consigliata la lettura perché il finanziamento sovietico del Pci è un pezzo cruciale della storia dei loro rapporti e rappresenta una vera e propria stimmate.
Gli iscritti non hanno mai ritenuto che ricevere dei soldi, dal 1921 fino al 1978 (quando ebbe luogo la rottura definitiva e il Pci cambiò nome), sia stato una vicenda da condannare. Tant’è vero che quando è stato chiaro che anche il Pci, oltre ai rubli convertiti mensilmente in dollari presso una banca del Vaticano, riceveva soldi da imprese di Stato e private o dagli appalti pubblici, si è assistito alla nascita di una sorta di paradigma identitario: rubare per il partito non è disdicevole, non può essere considerato un reato. Tali, per i comunisti, andavano considerati gli atti per cui i finanziamenti esterni finiscono nelle mani private e vengono usati non per finanziare la politica, ma per un arricchimento personale.
Sulle diverse forme in cui in Europa occidentale i partiti hanno declinato il rapporto con le risorse per sopravvivere la migliore rassegna bibliografia e analitica è opera di Giuliano Amato e Francesco Clementi, Nota sul finanziamento della politica, Camera dei deputati. Questa spiegazione può derivare dalla concezione del partito (il Pci in questo caso) come una religione, alla quale si debbono sacrificare valori e comportamenti.
Gianni Cervetti e Francesco Giasi (uno dei direttori della Fondazione Gramsci) hanno la mano felice quando raccontano il clima interno (le azioni dei magistrati di Mani pulite contro la prassi delle tangenti, il finanziamento pubblico ecc.) e internazionale (la guerra fredda), e le inquietudini che fece nascere in seno al gruppo dirigente comunista la proposta di Cervetti (concordata con Berlinguer ) di mettere fine all’oro di Mosca.
Non condivido le ragioni con cui finiscono per giustificare il fatto che un partito (era il caso dei comunisti) possa essere finanziato dall’esterno, da un paese straniero come l’Unione sovietica, senza compromettere gravemente la propria indipendenza. Finanziamento non occasionale (com’era quello degli Stati Uniti alla Dc e ad alcuni suoi rappresentanti come De Gasperi, Andreotti e Moro), ma permanente e pervasivo.
E’ durato più di mezzo secolo e veniva onorato mensilmente o trimestralmente. Con ulteriori interventi quando c’erano campagne elettorali non previste o quotidiani in difficoltà (è il caso di Paese Sera). L’Urss non era un nostro alleato, era anzi schierato dall’altra parte negli equilibri internazionali. Grazie al Patto di Varsavia costituiva anzi una minaccia alla nostra sicurezza e indipendenza.
Ma anche negli anni tra le due guerre per i dirigenti comunisti italiani (e i loro compagni di mezzo mondo) il cospicuo flusso di rubli\dollari dal Pcus al Pci si è svolto regolarmente. Pare abbia avuto un protagonista di eccezione (il predecessore di Cervetti subito dopo il 1921) in un non iscritto al partito (o iscritto sotto copertura) come Piero Sraffa, l’economista di Cambridge legatis simo a Gramsci. Per questa attività si coniò la metafora “commercio dei datteri”. La testimonianza viene da uno dei dirigenti apicali della Fondazione Gramsci di Roma, Giuseppe Vacca che è anche uno studioso ap prezzato e mai temerario nei suoi giudizi:”:”Ci sembra sufficiente mente provato l’inserimento di Sraffa, dopo l’elezione di Gramsci a segretario, nella rete delle attività di partito riservate e ‘coperte'”.[1]
Un velo di silenzio Cervetti e Giasi stendono su un’altra circostanza: l’addestramento militare che il Pcus riservava a gruppi di giovani comunisti inviati a Mosca da Botteghe Oscure. È una consuetudine che è durata fin quando il Pci non ha progressivamente dimesso l’idea di dotarsi di un apparato para-militare o per conquistare il potere(fin quando il Cominform ha investito su questa prospettiva) o per difendersi da torsioni autoritarie dei estrema destra (cioè per motivi di autodifesa).
Nella cultura dei comunisti è ancora vivo il legame ad un rito iniziatico: il fatto che il Pci sia nato come la sezione italiana dell’Internazionale comunista e quindi la sua libertà di azione comportava quella sia di armarsi sia di avvalersi di risorse proveniente dai paesi del Commonwealth sovietico. In secondo luogo permane ancora la convinzione che la guerra fredda sia stata una rottura dell’unità antifascista realizzatasi nella guerra contro il nazifascismo. E la responsabilità sarebbe degli Stati Uniti., della sua vocazione imperialistica.
Anche da questo interessante libro scaturisce una grande indulgenza sul disegno staliniano di estendere la propria presenza in Europa sia con colpi di mano, elezioni-truffa, interventi e minacce (com’è avvenuto in Germania, Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia e Bulgaria) sia servendosi dei partiti comunisti locali per arroventare i rapporti sociali e di classe con scioperi, agitazioni ecc. in Grecia, Italia, Francia, Belgio, Regno Unito, Spagna ecc. Per non parlare della molecolare penetrazione nel Mediterraneo e nell’Africa subsahariana fino all’Afganistan, alla Siria ecc.
In terzo luogo, persiste la difficoltà a rendersi conto, sul piano storiografico e politico, che in nessun paese comunista sono stati preservati gli istituti della tradizione liberale, quindi i diritti di libertà, di organizzazione, le autonomie ecc. Il comunismo ovunque ha dato vita a mostruosi stati e regimi che Gramsci chiamava di neo-bonapartismo. Con un lessico meno colto si trattava di forme più o meno aggiornate di dispotismo e di oppressione dei cittadini, a cominciare dalla stessa classe operaia e dai contadini.
Come si fa a esorcizzare questa realtà accusando chi non l’accettava, e la denunciava, di pregiudizio e ostilità preconcetta, cioè di anti-comunismo? Non è stata solo una reazione dei maggiori interessi capitalistici offesi, ma la percezione di massa, popolare, che la grande politica per realizzare un regime di eguaglianza da Lenin in avanti si è incarnata in micidiali macchine di potere, in apparati militari e forme parossistiche di controllo della vita personale e collettiva. Questo è stato il fallimento del comunismo che non si può negare o ridimensionare con le vecchie contrapposizioni degli anni Cinquanta.
Cervetti e Giasi non si pongono la domanda che a me pare essenziale: quale sarebbe stata la storia del nostro paese dal punto di vista dell’ampliamento dei diritti civili e individuali, delle riforme economiche sociali, della creazione di organi di autogestione e autogoverno nei luoghi di lavoro ecc., se i comunisti dopo la seconda guerra mondiale avessero posto fine allo spirito di scissione dal quale sono nati e si fossero riconosciuti in una sinistra liberal-socialista (o socialista-liberale)?
Oggi possiamo dire che la fine del finanziamento sovietico al Pci ha troncato una prassi che violava la cultura che informa la carta costituzionale, ma non ha sostanzialmente ridotto o contenuto il legame col sovietismo poststaliniano. Per un buon tratto di anni è andato avanti sulla base della tragica illusione di Berlinguer, condivisa da Cervetti, che il comunismo fosse un sistema, una realtà riformabile.
Solo nell’intervento al XXV congresso del Pcus (2 novembre 1977) Berlinguer si decise, ebbe cioè il coraggio di affermare il valore universale della democrazia.Giasi fa bene a ricordare le date in cui questa presa di posizione si è delineata. Mi pare, però, opportuno sottolineare che il dibattito sul rapporto tra comunismo e istituzioni liberali che ebbe come protagonisti, nella metà degli anni Cinquanta, Norberto Bobbio e Palmiro Togliatti ha subito un riserva così importante da durare oltre venti anni.
Già si potrebbe dimostrare con la sua prosa asciutta e serena e il dominio delle fonti che dalla metà degli anni Trenta anche Gramsci aveva cessato di credere nello “Stato operaio”, come amava chiamare, subito dopo l’ottobre del 1917, l’Unione sovietica, in preda alla fascinazione di Lenin. Il suo disincanto è già nel lessico definitorio, Stato neo-bonapartista.
A restare irretito nella logica del filo-sovietismo per tutta la guerra fredda fu un grande economista, amico di Gramsci, Piero Sraffa. Nel trentennio 1947-1975 il suo lavoro di consulente editoriale prestato a Giulio Einaudi si è dipanato proponendo la pubblicazione di saggi che difendessero l’Unione sovietica. La sua linea di condotta è manifestata in una lettera a un redattore torinese, Ubaldo Scassellati, della casa editrice. Gli fa sapere che nella scelta di quale autore pubblicare su un argomento come quello dell’Urss la prima cosa che accertava era la sua “posizione politica”. Fortunatamente l’Einaudi non lo ha sempre assecondato.
Togliatti e Berlinguer hanno impiegato una quarantina di anni, fino al 1977, per arrivare alla stessa conclusione, vale a dire che il comunismo è stato una debacle. Per la separazione tra dirigenti e diretti, tra borghesi e proletari, e l’avvio di un processo per eliminare le diseguaglianze tra gli uomini (che anche uno studioso come Franco Venturi aveva creduto possibile all’inizio degli anni Trenta) è stato più una sconfitta che uno scacco.
Gianni Cervetti, L’oro di Mosca, La testimonianza di un protagonista, prefazione di Francesco Giasi, Baldini e Castoldi, Milano 2022.
Antonio Tatò, Caro Berlinguer, Einaudi, Torino. 2003.
Piero Sraffa, Lettere redazionali 1947-1975,a cura di Tommaso Munari, Einaudi, Torino 2017
Salvatore Sechi, Compagno cittadino. Il Pci tra via parlamentare e lotta armata, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006.
G. Vacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci, Einaudi, Torino 2014.