di Gianfranco Orlando
Marco Biagi: un socialista perbene che ha lasciato una eredità ancora oggi di grande attualità.
La prof.ssa Marina Orlandi, moglie del compianto Marco Biagi, non poteva scegliere migliori parole di quelle che ha utilizzato in questi giorni a Bologna, presso la sede della Confcommercio Ascom, in occasione di una delle varie cerimonie che ogni anno vengono promosse all’avvicinarsi del 19 marzo, la tragica data del 2002 in cui avvenne l’efferato omicidio del grande giuslavorista, amico e socialista Prof. Marco Biagi.
“Aveva una grande attenzione per le persone più deboli: dai giovani ai senza tutela. Per loro si è battuto a costo della vita”, ha detto Marina Orlandi, da quanto riportato dalla stampa.
Bastano queste poche sentite e sincere parole per far capire la grandezza e l’umanità di una grande personalità come Marco Biagi.
Io, permettetemi questo ricordo personale, ebbi occasione di rivedere Marco, dopo un po’ di anni dalla sua collaborazione con l’Assessorato alla Formazione Professionale e Lavoro della Regione Emilia-Romagna nei primi anni ’90 (dove io lavoravo nel Gruppo consiliare PSI di quegli anni, sotto la Presidenza di Enrico Boselli) in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico 2001-2002 dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia tenutasi il 6 ottobre 2001 nell’Auditorium della Chiesa S. Carlo a Modena.
Marco Biagi, già in quel 2001 consulente del Ministro del Welfare per l’elaborazione della riforma del mercato del lavoro e Consigliere dal Presidente della Commissione Europea, Romano Prodi, era stato nominato, l’anno prima, nel 2000, delegato del Rettore di UNIMORE per l’orientamento al lavoro e in questa veste, in particolare, intervenne con una prolusione dal titolo “Università e orientamento del lavoro nel doporiforma: verso la piena occupabilità?” all’inaugurazione dell’Anno Accademico 2001-2002.
Tenne come al solito una relazione brillante, in cui affrontò con lucidità e concretezza, il ruolo che l’Università poteva e doveva assumere in un sistema in evoluzione, un ruolo fondamentale nella definizione delle politiche locali per l’occupazione e nelle politiche attive del lavoro, un ruolo da protagonista nelle politiche per la occupabilità attraverso l’organizzazione dei tirocini formativi dei laureandi e la gestione di un servizio di placement per i laureati che favorisse l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro. Sottolineò in quella occasione la necessità, così come avveniva in tante realtà evolute dell’Europa, dell’avvio di quella che lui chiamava “una nuova stagione di patti locali” per la piena occupabilità.
Alla fine della cerimonia mi avvicinai a Marco per salutarlo e rivedendomi dopo alcuni anni mi chiese come stavo, cosa facevo e, saputo che ero da poco diventato Segretario Provinciale del PSI di Modena, mi incoraggiò, mi diede il suo biglietto da visita con i suoi recapiti telefonici aggiornati e mi disse di andare a trovarlo appena mi era possibile.
Purtroppo, e me ne rammarico ancora oggi, non riuscì a rivederlo più perché qualcun altro, accecato da fanatismo e ignoranza, aveva deciso, pochi mesi dopo, che le parole e il sapere di Marco Biagi erano troppo forti e troppo innovativi perché potessero ancora continuare a intervenire e a incidere (questa era la sua grande colpa) nel complesso sistema del mondo del lavoro e delle relazioni industriali del nostro Paese.
A distanza di ormai più di un ventennio ancora oggi, in questo periodo dell’anno, in ricordo di Marco ci si sofferma per alcuni giorni a discutere seriamente, come si sta facendo anche a Modena, sui temi del lavoro per cercare di trovare delle risposte, delle ricette, delle soluzioni che, come faceva Biagi, dessero valore al lavoro e dignità ai lavoratori in un corretto rapporto con le esigenze delle imprese e l’esigenza dei lavoratori ad avere opportunità, tutele e soddisfazioni. Un lavoro che si apre al mondo in continuo cambiamento per capirlo, orientarlo, modificarlo, innovarlo.
Solo pochi giorni fa, il 13 marzo, si è celebrato il ventennio dall’approvazione della cosiddetta Legge Biagi, la legge 30/2003, approvata dopo la morte di Marco Biagi, e che è tutt’oggi la struttura portante del mercato del lavoro nel nostro Paese. Le successive riforme in materia, dalla legge Fornero sulle pensioni del 2011 del Governo Monti al Jobs Act del 2015 sulla flessibilizzazione del mercato del lavoro del Governo Renzi, sono state sostanzialmente un adeguamento dei principi introdotti con la legge 30/2003.
È forse tempo per un bilancio per capire, come avrebbe fatto Biagi, cosa fare per migliorare la situazione tenendo sempre presente, come appunto diceva Biagi che la vera riforma deve essere “non normativa, ma culturale”. Solo se c’è una riforma culturale nel pensare il diritto del lavoro allora possiamo tentare di trovare delle soluzioni e favorire dei processi utili per i lavoratori, per le imprese e per la società.
È di questi giorni il dibattito tra quelli che vorrebbero l’introduzione nel nostro sistema del salario minimo che è del resto una realtà già in 22 Paesi dell’Unione Europea e chi invece vorrebbe di converso puntare su un rilancio della contrattazione tra le parti sociali.
Se l’introduzione di un salario minimo può essere una buona risposta al cosiddetto “lavoro povero”, è anche vero che gran parte dei contratti di lavoro attualmente in vigore in Italia, stipulati con la contrattazione collettiva, strumento che storicamente ha governato in Italia i rapporti tra imprenditori e lavoratori, sono irregolari. Molti di questi contratti sono infatti stati siglati da associazioni imprenditoriali non rappresentative con sindacati anch’essi privi di rappresentanza. L’obiettivo di questi contratti è spesso quello di risparmiare sul costo del lavoro facendo concorrenza sleale a imprese e associazioni datoriali corrette. Questo però non vuol dire buttare via l’acqua sporca con il bambino dentro e quando dico bambino mi riferisco allo strumento della contrattazione che era e rimane una modalità a garanzia dei diritti, se correttamente utilizzata.
Probabilmente occorrerebbe intervenire su entrambi gli aspetti, come occorrerebbe intervenire sul tema della media dei salari nel nostro Paese: a fronte di salari cresciuti negli ultimi trent’anni enormemente in tutti i Paesi europei (con percentuali di incremento differenti tra i vari Paesi ma pur sempre di segno positivo), l’unico Paese europeo in cui i salari, a parità di acquisto sono quelli del 1990 sono, indovinate un po’, l’Italia che segna un -2,9% a distanza di trenta anni.
Il tema dei salari bassi lo ritroviamo anche se ragioniamo di Reddito di Cittadinanza: colpisce ad esempio il dato che pare che il 46% dei percettori del Reddito di Cittadinanza in questo Paese risulta non disoccupato, ma occupato anche se con impieghi e conseguente retribuzione così bassi da costringere i lavoratori a ricorrere al Reddito di Cittadinanza per la sussistenza.
Se già di per sé il Reddito di Cittadinanza, così come orchestrato da Conte e Di Maio e grillini vari, ha dimostrato tutti i limiti che ormai sono riconosciuti da tutti, se non da quelli che invece non vogliono vedere, questo dato fa capire bene che il problema non è dare un reddito di sussistenza a chi il lavoro non ce l’ha (o almeno non solo questo), ma il problema è riuscire a dare opportunità di lavoro a chi non ce l’ha e salari decorosi sia ai nuovi occupati che a quelli che lavorano già ma sono sottopagati.
Per concludere, anche perché la riflessione potrebbe essere molto più lunga e toccare vari punti che riguardano l’intero mondo del lavoro e le sue problematiche, a volte evidenti a volte più nascoste, con ricadute importanti sulla tenuta economica e sociale del nostro Paese, su questi temi occorre avere il coraggio di affrontare le questioni senza pregiudizi.
Avendo bene presente, come si diceva che il lavoro è di per sé un valore non a caso eretto dalla nostra Costituzione al rango di diritto e a fondamento della nostra Repubblica.
Su tutto questo, su questo approccio coraggioso e privo delle lenti del pregiudizio ideologico, il pensiero e l’opera di Marco Biagi è ancora oggi di grandissima attualità