Luigi, Salomone, Calibano, Sallustio, Semiramide era uno strano personaggio disneyano, tra lo stravagante e il genialoide, che era solito tirar fuori dalle mutande qualunque cose fosse utile all’occorrenza, compresi portaerei e missili balistici. Insomma era sempre in grado di tirare fuori il coniglio dal cappello.
Questo ruolo da “ho una soluzione per tutte le stagioni” è stato quello che ha recitato Berlusconi nelle settimane comprese tra l’inizio della campagna elettorale e la fase della formazione del governo.
Consapevole che i riflettori erano puntati tutti sulla Meloni e sofferente, visto il suo ego, per non essere al centro della ribalta ogni tanto ne sparava una, quasi sempre grossa, probabilmente anche nell’intento di alzare la voce per avere un peso in una coalizione nella quale, tra lui e Salvini, non si sapeva chi era più destinato a fare il garzone di bottega.
Tra le tante se ne uscì con una frase sibillina: “con il presidenzialismo Mattarella dovrebbe dimettersi”.
Eravamo vicini a ferragosto e in molti avranno pensato che il caldo, se eccessivo, fa male.
Detta così non significava nulla perché con la parola secca “presidenzialismo”, tra l’altro riferita a Mattarella, non era chiaro se intendesse alludere solo a un Presidente della Repubblica eletto dal popolo o a trasformare una repubblica parlamentare, quale è la nostra, in una repubblica presidenziale nel segno americano o francese, con tutte le differenze che tra le varie ipotesi vi sono.
Sebbene l’argomento non fosse mai stato nell’agenda della Meloni, che forse se n’era anche dimenticata, già all’indomani delle elezioni la futura nuova premier raccolse il tema o lo rilanciò. Così, con la stessa nonchalance del cavaliere, senza specificare cosa volesse intendere con la parola “presidenzialismo”.
Facendo la coda a tutto ciò, e sempre con il mistero sul cosa fare e come fare, in questi giorni la Casellati ha avviato le consultazioni tra le forze politiche per raccogliere orientamenti e posizioni varie.
Craxi, negli anni ’80, aveva fatto cenno più volte a cose del genere ma si riferiva alla elezioni diretta, da parte del popolo, del Presidente della Repubblica e non a stravolgimenti di poteri, funzioni, attribuzioni di sorta che trasformassero la natura parlamentare della nostra democrazia.
Oggi, rispetto a quegli anni, nel paese siamo in una condizione diversa e loro vogliono fare, forse, una cosa diversa.
Siamo in una condizione diversa perché il paese non è quello degli anni Ottanta.
Allora c’era una politica autorevole e una Italia forte. La finanza non spadroneggiava ma era governata dalla politica, l’economia andava come una locomotiva, in campo internazionale eravamo la quarta potenza del pianeta (secondo il rapporto della Business International del gruppo Economist). C’erano insomma tutte le condizioni per fare le riforme utili e necessarie al paese e c’era soprattutto una classe politica sufficientemente responsabile per evitare che si trasformassero in stravolgimenti che lo rivoluzionassero.
Oggi invece c’è una situazione economica che dal 1994 è in un inesorabile declino, c’è un mondo intero, falcidiato dal covid, che si sta leccando ancora le ferite, c’è una guerra che, quando sembrava che potessimo mettere il naso fuori dal tunnel per prendere un po’ sole, ci ha rispedito dentro con un calcione sul naso, c’è una globalizzazione che sta stravolgendo l’economia, ci sono dinamiche sociali che stanno rivoluzionando il pianeta.
E poi non si comprende quel che vogliono fare, non si conosce il progetto, forse non c’è.
Una riforma costituzionale deve rispondere a una idea di stato ben precisa, con la consapevolezza lucida e cosciente di quel che si lascia e quel che arriverà.
E soprattutto un impianto di revisione delle istituzioni non può passare che per una costituente (visto il fallimento di ben tre bicamerali) che sia politicamente e dottrinariamente qualificata e che sia ampiamente rappresentativa dell’intero tessuto pluralistico del paese.
E non saranno certo le consultazioni ecumeniche della Casellati a rendere rappresentativo un progetto che sembra buttato a caso, come i dadi sul tappeto, con buona pace di qualcuno che, siccome invitato, se ne sentirà gratificato.
La sensazione è che ci si muova a vista e che si voglia operare a casaccio, pur di far qualcosa, pur di fare vedere che qualche riforma viene attuata.
Insomma siamo come quel turista che, prima di affrontare un lungo viaggio, invece di pensare a riparare i pesanti danni meccanici alla macchina per farla marciare con sicurezza, pensa a mettere le gomme larghe, l’alettone anteriore e posteriore e a cambiare la marmitta per far sembrare una 500 degli anni Settanta un bolide della Formula 1.
A meno che! Perché c’è sempre un “a meno che”.
A meno che non ci sia una ipotesi peggiore, ma non la più improbabile.
A meno che quindi, scusate la quadruplice ripetizione ma rende l’idea, la riforma in senso presidenziale della nostra democrazia non sia destinata ad altri fini.
Le nostre istituzioni sono fragili perché l’idea della loro sacralità è stata indebolita da una classe politica che negli ultimi trent’anni è stata così mediocre da perderne il senso e le ragioni.
Guardando altrove vediamo cose diverse.
La nazione inglese, la cui costituzione non è neanche scritta, la mantiene intatta da quasi 700 anni.
Sulle bianche scogliere di Dover iniziarono a masticare la parola democrazia nel 1215, con l’adozione della Magna Charta, e più tardi, quando in tutta Europa andavano di moda le monarchie assolute e ovunque si imitava Louis Quatorze, le Roi Soleil, quello della famosa frase “l’état c’est moi”, dalle parti di Albione scoprivano l’importanza del parlamento e nel 1689 adottavano il Bill of rights che trasformava la corona inglese in una monarchia parlamentare riconoscendo una centralità delle assemblee nella guida politica e costituzionale dello stato.
In Italia è diverso.
La repubblica è giovane, giovanissima rispetto a quella inglese e la sacralità delle istituzioni non è così radicata e, sebbene nella nostra storia c’è stata un’epoca in cui le riforme venivano destinate a migliorare le condizioni del paese, oggi non è più così.
Le varie modifiche della legge elettorale hanno dimostrato invece che in questa seconda, quasi terza, repubblica i cambiamenti sono stati fatti solo per potenziare le posizioni di forza di chi le proponeva e le adottava.
E allora si annusa il sospetto che le riforme che hanno in testa, invece di migliorare le condizioni del paese, siano destinate ad altri scopi.
Per esempio, e guarda caso, a rafforzare il potere di chi comanda e a farlo crescere.
Ecco perché le strumento infantile e semplicistico delle consultazioni, per dare un senso di coralità, quando invece si vuole andare avanti a colpi di maggioranza.
E il pericolo che si paventa all’orizzonte non è tanto quello assolutista ma piuttosto quello del pastrocchio. Come nello stile della seconda, e ora, terza repubblica.
Come nello stile di chi, a differenza del senso della sacralità degli inglesi, ha introdotto, nelle aule parlamentari, scatolette di tonno, striscioni da stadio e magliette con scritte da cubista.
E allora, se così sarà, non ne verrà fuori una 500 che sembri una Formula1.
Rischieremo di tornare al calesse.
Magari tirato fuori dalle mutande di Luigi, Salomone, Calibano, Sallustio, Semiramide che noi abbiamo conosciuto come Eta Beta.