Nessuna opzione atomica per Israele. O così dicono.
Il Fondo Nazionale Ebraico fu fondato nel 1901 a Basilea per comprare e coltivare appezzamenti di terra nella Siria ottomana (l’attuale Israele) per favorire l’insediamento del popolo ebraico. Il Fondo è tuttora un ente non profit dell’Organizzazione sionista mondiale e ha poteri parastatali. Nel 2007 era proprietario del 13% della superficie fondiaria in Israele. Negli ultimi due anni ha investito 4 milioni di shekel (987.000 euro) in un onorevole progetto per recuperare gli adolescenti che abbandonano gli studi e vivono nelle colonie agricole dedite alla pastorizia in Cisgiordania. Ed è sempre grazie al FNE che Israele parrebbe possedere l’arma atomica. Il condizionale è d’obbligo, considerando che fino a oggi Israele non ha mai ufficialmente confermato di avere armi atomiche. Anche se le stime parlano di circa 80 testate presenti nei suoi arsenali.
Il rafforzamento della difesa delle sue strutture nucleari, (o almeno di quelle ad uso civile), fu avviato ufficialmente nell’estate del 2018, durante la crescente tensione tra Iran e Siria. In particolare, furono rafforzate le difese militari intorno ai reattori di Dimona e Nahal Sorek. Si temeva, allora, che un attacco iraniano o di Hezbollah potesse danneggiare proprio queste centrali, ma non per creare un disastro nucleare: piuttosto per colpire uno dei punti nevralgici dell’infrastruttura energetica e del presunto arsenale nucleare israeliano. Presunto. Eppure la stessa Commissione per l’energia atomica israeliana ha spesso condotto esercitazioni che avevano come scenario un attacco missilistico. Un’idea da tempo paventata in seno all’amministrazione, e che si ritiene possa essere plausibile in casi di escalation militare con Hezbollah, o con Hamas, il cui stesso leader Nasrallah aveva più volte ipotizzato un attacco contro la centrale di Dimona.
A proposito di questo sito, una ricerca aveva già studiato la capacità di un missile Scud di danneggiare il reattore, anche cadendo a qualche decina di metri dal bersaglio: lo scudo protettivo, costruito all’interno delle parti più sensibili, non sarebbe stato in grado di reggere l’urto. Nel 2018 si parlò solo di energia nucleare, e nessuno aveva posto l’accento sulla possibilità che quei siti fossero sensibili proprio perchè parte del presunto programma nucleare israeliano. Ma l’ipotesi resta, e molti ritengono che dietro questa fortificazione vi sia in realtà l’ipotesi atomica. Israele ha da sempre sostenuto la cosiddetta “dottrina Begin”, il cui scopo è appunto quello di evitare che altri Stati limitrofi siano in grado di arricchire uranio. Questa dottrina nasce nel 1981, quando l’allora primo ministro israeliano Menachem Begin, leader del Likud, ordinò l’operazione Babilonia: si trattava di distruggere il reattore nucleare di Saddam Hussein ad Osirak, in Iraq. Il Mossad riteneva che quella centrale nucleare, ancora in costruzione, fosse il fulcro del programma nucleare militare iracheno. Begin, pochi giorni dopo l’attacco aereo, rivendicò l’azione di Israele come operazione preventiva destinata ad impedire che i loro nemici potessero ottenere l’arma atomica, e compiere così un secondo Olocausto.
Il tema fu poi rispolverato nel 2018 dal parlamentare Jamal Zahalka, per sollecitare un monitoraggio internazionale sull’impianto nucleare di Dimona. La Knesset respinse in blocco la proposta, con una maggioranza schiacciante: 73 deputati a 8. Solo i parlamentari della Joint List di Zahalka votarono a favore di quel disegno di legge. Una proposta che, se approvata, avrebbe imposto a Israele di firmare il Trattato sulla non proliferazione nucleare entro un mese, per poi sottoporre la struttura di Dimona alla supervisione dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica. “Finché Israele avrà armi nucleari, anche altri Paesi della regione cercheranno di acquisirli, e prima o poi li prenderanno”, disse allora Zahalka. “L’unico modo per evitare che ciò accada è denuclearizzare l’intero Medio Oriente, incluso Israele”. La proposta di cinque anni fa aveva un chiaro valore simbolico. Nessuno, in Israele, si sogna di interrompere un meccanismo politico e strategico come quello che circonda l’arsenale nucleare. Del resto, da sempre Israele non conferma di possedere testate, soprattutto per evitare ogni tensione nell’area. Anche i presidenti degli Stati Uniti hanno un tacito e storico accordo con i governi israeliani per evitare di sollevare la questione in sede pubblica.
Israele ha di certo piena legittimità a sviluppare un proprio arsenale nucleare. Tuttavia, è difficile giustificare una politica volta a evitare che altri Stati abbiano la stessa capacità quando non si permette agli osservatori internazionali di accedere ai propri siti, o quando non si firma il Trattato sulla non proliferazione. Questo fa parte di una strategia specifica: quella della totale ambiguità sul fronte nucleare. Tutti sanno che Israele ha l’atomica, ma nessuno può dirlo con certezza. Tutti ritengono che Dimona sia il cuore del programma atomico israeliano, ma non esiste nessuno in grado di confermarlo. La verità sembra ancora sepolta nel deserto del Negev. Eppure all’indomani dello scorso tragico 7 ottobre, gli esperti militari hanno subito rievocato quella che in gergo chiamano “Opzione Sansone“, dal nome del celebre personaggio biblico: Sansone è il nome in codice per definire l’arsenale che fornisce a Israele un deterrente nucleare, cioè lo strumento che impedisce ad altre nazioni di lanciare un attacco che possa distruggere lo Stato ebraico. Alla lettera, secondo il dizionario, deterrente è un mezzo la cui semplice esistenza o disponibilità consente di dissuadere un avversario da atti ostili verso chi lo possiede: un potere di dissuasione, quindi, che costituisce l’estrema difesa per Gerusalemme, e che tutti i suoi nemici nel resto del Medio Oriente hanno ben presente ora, mentre imperversa una guerra suscettibile di scatenare un conflitto di ben più ampie dimensioni in tutta la regione.
Anche se il governo israeliano non ha mai ammesso di avere armi nucleari, secondo alcune fonti accreditate (che circolano ormai da decenni) Israele avrebbe da 100 a 200 testate nucleari, lanciabili da aerei, sottomarini e con razzi, e sarebbe a livelli operativi già parte del cosiddetto “club atomico”, la lista dei Paesi dotati di ordigni di questo tipo. Un club che comprende Russia (5900 testate), Stati Uniti (5200), Cina (450), Francia (290), Regno Unito (225), Pakistan (170), India (165) e Corea del Nord (30). Gli annali riportano che, consapevole di essere una piccola democrazia con pochi milioni di abitanti, circondata da 200 milioni di arabi disseminati fra vari Paesi, tutti determinati a farlo scomparire, Israele cercò di procurarsi l’arma nucleare fin dalla sua fondazione, con la guerra d’indipendenza del 1948. Del progetto si occupò Shimon Peres, che poi è stato ministro degli Esteri, premio Nobel per la pace, primo ministro e presidente, ma all’epoca era direttore generale del ministero della Difesa israeliano, nonchè fidatissimo collaboratore di David Ben Gurion, primo premier israeliano. Il piano si sviluppò in due direzioni parallele, entrambe segrete: da una parte, lo sviluppo di una centrale nucleare a Dimona e di una base civile e militare nel deserto israeliano del Negev, in cui lavoravano (e lavorano tuttoggi) i migliori scienziati e tecnici di Israele; dall’altra, la stretta cooperazione con la Francia, che si disse da subito disposta ad aiutare Gerusalemme nel dotarsi della tecnologia e delle risorse necessarie a sviluppare un’arma atomica.
“Dobbiamo la bomba a Israele per il debito che abbiamo nei loro confronti”, confidò allora ad uno dei suoi consiglieri il premier francese Guy Mollet, vergognandosi di averli abbandonati nella “crisi di Suez”, la guerra del 1956 in cui Francia e Gran Bretagna incitarono Israele a conquistare la zona del canale, per poi ritirarsi precipitosamente su pressione degli Stati Uniti, temendo un conflitto con l’Unione Sovietica. Maurice Bourges-Maunory, suo successore, poco più tardi disse al governo di Gerusalemme: “Vi ho dato la bomba per prevenire un altro Olocausto e permettervi di affrontare i tanti nemici che avete in Medio Oriente”. Nel 1958 il presidente francese Charles De Gaulle sembrò ripensarci, e provò a chiudere la cooperazione nucleare con Israele, ma una missione diplomatica di Simon Peres a Parigi riuscì a sventare quella sua idea ancor prima che nascesse.
Altri fascicoli diplomatici riportano che il primo test nucleare fu effettuato con successo nel deserto del Negev nel 1963, pochi mesi prima del famigerato attentato di Dallas: Kennedy ne ebbe pronta notizia e si attivò immediatamente per convincere la Knesset a bloccare il proseguimento degli esperimenti. Quando poi, nel 1967, lanciò l’attacco preventivo contro Egitto e Siria (nella crisi che sarebbe diventata nota come la guerra dei Sei Giorni) Israele disponeva già di due bombe atomiche. Nel 1973, quando Egitto e Siria invasero Israele, cogliendola impreparata e avendo la meglio per i primi tre giorni di combattimenti, lo Stato ebraico possedeva già una dozzina di bombe nucleari. Nel timore che gli eserciti arabi continuassero ad avanzare, un generale israeliano ricordò all’allora premier Golda Meir: “Abbiamo sempre le armi atomiche”. Ma Golda lo zittì immediatamente, sapendo bene che il conflitto si svolgeva ancora soltanto nelle alture del Golan e nella penisola del Sinai, due aree conquistate da Israele nella guerra del ’67, quindi oltre i confini dello Stato ebraico propriamente detto. Dal quarto giorno di scontri, comunque, la controffensiva israeliana iniziò ad avere successo, e il fantasma nucleare svanì. Gerusalemme vinse anche la guerra dello Yom Kippur, come verrà ricordato il conflitto del ’73, e la questione non si pose più. Da quel momento la superiorità militare di Israele nei confronti dei Paesi arabi diventa tale, a livello di armi convenzionali, da non rendere neppure necessaria l’ipotesi del ricorso a quelle non convenzionali per difendersi. Finché all’orizzonte, dopo la rivoluzione khomeinista del 1979, si profilò una nuova minaccia: l’Iran. “Non permetteremo a Teheran di avere armi nucleari”, ha ribadito più volte Benjamin Netanyahu, nel corso dei negoziati internazionali sul controllo del programma nucleare iraniano, che sembra avere scopi solo civili secondo gli ayatollah, ma nasconde chiari scopi militari secondo Gerusalemme.
Il programma nucleare israeliano è venuto ufficialmente alla luce soltanto una volta, nel 1986, quando Mordechai Vanunu, un ex-tecnico della centrale nucleare di Dimona, in nome di “presunte” convinzioni pacifiste andò a Londra a raccontare al Sunday Times che lo Stato ebraico possedesse armi atomiche, fornendo numerosi dettagli a proposito. Attirato in seguito con una trappola a Roma da alcuni agenti del Mossad, Vanunu fu catturato e trasportato clandestinamente in Israele, dove fu condannato a 18 anni di reclusione per violazione di segreti di stato. Rilasciato nel 2004, è stato poi di nuovo arrestato e detenuto per violazione dei termini della libertà vigilata, che restringono tuttora la sua possibilità di andare all’estero e di avere contatti con giornalisti stranieri.
Di recente l’avvocatessa Tally Gotliv, membro della Knesset per il Likud, ha parlato del possibile utilizzo del sistema missilistico nucleare (denominato Jericho) al posto di un’invasione di terra, che costringerebbere a impiegare tutto l’esercito israeliano. Nonostante le sue affermazioni, gli esperti sanno bene che non è possibile condurre una guerra con armi nucleari in scenari così ristretti, ma le parole della Gotliv hanno riacceso l’attenzione su questo sistema missilistico, sviluppato a partire dagli anni ’60, il cui nome rimanda alla distruzione della biblica città di Gerico. Israele ha sviluppato negli anni i sistemi missilistici Jericho 1 e Jericho 2. Un nuovo sistema missilistico a raggio intermedio, chiamato Jericho 3, è stato messo a punto solo di recente. Secondo il Centro per gli studi strategici e internazionali, con sede a Washington, il missile balistico Jericho 3 sarebbe già stato testato nel 2008 nei pressi di Tel Aviv, per poi essere introdotto in pieno servizio nel 2011. Posseduto e sviluppato da Israele, le specifiche del missile sono state migliorate rispetto ai due modelli precedenti: secondo gli analisti, la singola testata (del peso di circa 75 chili) ha una gittata che copre dai 4.800 ai 6.500 chilometri.
C’è una frase che fa parte da sempre della tradizione orale israeliana, e recita pressappoco così: “Quando tutti gli ebrei avranno lasciato Israele, costretti a farlo, l’ultimo di loro premerà il bottone nuclare“.