“I richiedenti asilo dovrebbero essere trattati in modo uniforme in tutta Europa. L’UE si sta adoperando per conseguire questo obiettivo“. Se apriamo la pagina web ufficiale del Consiglio Europeo, al capitolo “migrazioni” troviamo questo laconico e impeccabile annuncio. E se già l’uso del verbo condizionale ci crea orticaria, la situazione non migliora scorrendo la nutrita serie di memorie che dovrebbero indurre chi legge ad apprezzare il lavoro finora svolto a Bruxelles per arginare il problema. Perché in effetti l’approccio è quello tipico di chi affronta un problema, non di chi prova a trasformare la crisi in opportunità.
Farà piacere conoscere poi, continuando, la lunga sequenza di interventi normativi finora realizzati dai partner UE sul tema. A cominciare dall’autunno dell’ormai lontano 2015, quando furono attivati i cosiddetti “dispositivi integrati” per la risposta politica alle crisi, dispositivi destinati (almeno teoricamente) a “coordinare la risposta politica a una crisi riunendo i principali attori”. Una, generica e politica risposta che diventa (o meglio, dovrebbe diventare) specifica nel caso di vere e proprie ondate migratorie – concetto del tutto assente sul sito.
Inoltre, proseguendo nella lettura, piuttosto che una serie di puntuali soluzioni pratiche e appositi quadri operativi, troviamo piacevoli scenari – a dir poco bucolici – che spiegano come attirare i talenti e le competenze dall’estero, come gestire il reinsediamento dei richiedenti asilo, come gestire i flussi migratori legali e come organizzare i rimpatri e le riammissioni. Nulla a che fare col cimitero mediterraneo, o con i centri di prima accoglienza stracolmi, sempre più simili a gironi danteschi che ad alberghi sicuri per naufraghi disperati.
Annaspando nel tentativo di trovare regole chiare da applicare alla faccenda, dovrebbe consolarci la notizia (questa sì, ben evidente) per cui “finora l’UE ha concluso 18 accordi di riammissione, tessendo relazioni con 79 paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico e includendo apposite disposizioni sul rimpatrio dei migranti irregolari nei rispettivi paesi di origine“. I dati forniti dalle fonti ufficiali si fermano, però, al 2019. Più esattamente, scopriamo che “nel settembre del 2018 la Commissione ha proposto una riforma delle norme comuni in materia di rimpatrio, con proposte di modifiche volte a rendere le norme vigenti più efficaci”. Grazie, interessante. Ma in pratica?
Non ci resta, allora, che scrutare più ampi orizzonti giuridici, e in particolare quelli forniti da due testi fondamentali: la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) del 1982 e il Regolamento europeo di Dublino del 2013 in tema di richiesta di asilo. Ad essere pignoli, dovremmo anche aggiungere il Safety of life at sea (SOLAS) del 1974, che riguarda la salvaguardia internazionale della vita umana in mare; la SAR firmata ad Amburgo nel 1979 sulla sicurezza della navigazione dei mercantili; e infine, per quanto riguarda l’assistenza, la Convenzione SALVAGE firmata a Londra nel 1989. Tutte queste convenzioni trovano una sintesi operativa nel Protocollo per il soccorso rapido di eventuali naufraghi, ai quali deve essere garantito lo sbarco in un luogo sicuro sempre, ovunque e comunque.
Volendo concentrarsi sulle faccende europee, che tanto agitano l’esecutivo in questi giorni, il Regolamento di Dublino afferma che “gli Stati membri esaminano qualsiasi domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un Paese terzo o da un apolide sul territorio di qualunque Stato membro, sia alla frontiera che nelle zone di transito”. Fin qui tutto bene. Ma le polemiche scattano nel determinare lo Stato membro competente, cioè quello che deve esaminare le richieste di asilo. E qui il Regolamento prevede tre criteri di scelta: il primo indica competente lo “Stato membro dove può meglio realizzarsi il ricongiungimento familiare”; il secondo “lo Stato membro che ha rilasciato al richiedente un titolo di soggiorno o un visto d’ingresso in corso di validità”. Criteri tanto ineccepibili quanto inapplicabili (considerando le dinamiche degli sbarchi e le tragedie ad essi connesse).
Ci resta il terzo ed ultimo criterio: che le richieste di asilo siano esaminate nello Stato di primo ingresso illegale. Tombola! Ne risulta, allora, che è Roma a dover accollarsi le richieste dei migranti sbarcati nei porti italiani. E gli altri Paesi dell’Unione, quindi, posso serenamente restare a guardare?
Il regolamento stesso prevede obblighi di solidarietà non precisamente definiti: i paesi membri UE possono partecipare alla redistribuzione dei migranti oppure sostenere finanziariamente i Paesi di primo approdo oppure offrire altre forme di aiuto.
Signore e signori, benvenuti nel Regno del perfettamente aleatorio. Certo, l’obiettivo del trattato di Dublino era quello di circoscrivere le domande di asilo a pochi Paesi membri, ma la sua impostazione ha finito con l’addossare il maggior peso degli sbarchi illegali sui Paesi che, per mera collocazione geografica, si trovano sulle rotte migratorie. E qui il nostro Paese vince a man bassa, fin troppo chiaramente.
Se l’accordo di Dublino “fosse applicato davvero, i migranti raccolti dalle navi delle ONG straniere dovrebbero essere portati negli Stati di bandiera delle imbarcazioni, perché quello è tecnicamente lo Stato di primo accesso”, ha già sottolineato il ministro Nordio, col piglio sicuro di chi le norme le mangia a colazione. E ha aggiunto: “l’accordo di Dublino è stato firmato quando questa problematica era molto diversa e può benissimo essere rivisto”. Nulla da eccepire all’osservazione del Guardasigilli. Ma pochi sono i paesi europei pronti a modificare i patti di Dublino: come dimostrano i fatti, nel corso degli anni alcuni Stati hanno di volta in volta siglato accordi congiunti per la ridistribuzione dei migranti e per la gestione dell’accoglienza. Molti di questi sono stati già “sospesi”, termine edulcorato per non dire “annullati”. Del resto, un accordo di redistribuzione su base volontaria non impone nessun obbligo ai sottoscrittori.
L’ultimo e più recente accordo interministeriale sul tema risale a giugno scorso, quando nel corso del Consiglio Affari Interni dell’Unione Europea i Ventisette approvarono due pacchetti legislativi sulle procedure di gestione delle frontiere e dei richiedenti asilo, pacchetti da incardinare poi nel più ampio Patto sull’immigrazione, ancora in giro tra le aule dei vari organi legislativi europei. I Ministri europei degli Interni hanno comunque stabilito che l’Unione dovrà dotarsi di una capacità di gestione prefissata, che preveda la ripartizione dei migranti tra i Ventisette sulla base di due parametri: il Prodotto interno lordo e la popolazione. Sarà poi la Commissione a stabilire di volta in volta se un Paese abbia o meno bisogno di solidarietà in caso di evidente crisi: solo allora il Paese in difficoltà sarà esentato dalle procedure di frontiera previste dall’accordo di Dublino, e potrà ottenere o il ricollocamento di migliaia di migranti oppure un indennizzo per ogni migrante non trasferito, (cifra allora quantificata in 20mila euro).
Allora: se queste sono le ultime intese europee, fa specie quanto pubblicato ieri sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica, sotto forma di Decreto del Ministero dell’Interno: al singolo migrante sbarcato in Italia verrà chiesta una “garanzia finanziaria” di 4.938 euro come alternativa al trattenimento in una struttura specifica nella prima fase di accertamento del diritto ad entrare nel nostro Paese. La garanzia – da prestare in unica soluzione con fideiussione bancaria o polizza fideiussoria assicurativa – deve essere “idonea a garantire allo straniero, per il periodo massimo di trattenimento (28 giorni), la disponibilità di un alloggio adeguato sul territorio nazionale, della somma occorrente al rimpatrio e di mezzi di sussistenza minimi necessari”.
Le disposizioni del decreto saranno applicate “ai cittadini di Stati non appartenenti all’Unione Europea che sono nelle condizioni di essere trattenuti durante lo svolgimento della procedura in frontiera”.
Eccoci arrivati al capolinea: abbiamo legiferato in assenza di una qualunque normativa specifica di gestione dell’emergenza sbarchi, abbiamo stabilito le nostre leggi non contro quelle europee, ma sul presupposto di un conclamato ritardo normativo di riferimento. Verrebbe da dire Chi è causa del suo mal, pianga se stesso. Ma siamo proprio sicuri che a piangere, alla fine, non saremo proprio noi? E, in fondo, chi determina il peso di un lacrima? Quelle salate dei migranti pesano meno delle nostre? Davvero?
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