Le maggiori testate di Tunisi sottolineano l’incedere delle apprensioni delle capitali europee sulla situazione interna del paese. Ha incominciato Roma, allarmata dall’aumento degli sbarchi dal mediterraneo, ha proseguito Parigi certamente non distratta dalle sorti del loro ex protettorato.
Si interrogano però, legittimamente, i tunisini se per caso la loro sorte in bilico non sia anche il frutto della distrazione occidentale; dopo la cosiddetta rivoluzione gli incoraggiamenti economici sono stati molteplici non c’è dubbio, quel che però la transizione post- BenAli non ha saputo garantire é quella stabilità politica che, al netto delle limitate espressioni democratiche, una autocrazia riesce sempre a determinare.
Forse per questa ragione si è data molta fiducia al Presidente Sayed, che ha tuttavia accelerato una torsione autoritaria che ha indispettito gli interlocutori internazionali;
In primis il Fondo Monetario Internazionale di influenza americana che ha avviato un negoziato assai rigido che dura da un anno;
Per fare fronte al fabbisogno interno la Tunisia necessita di un finanziamento che si aggira attorno ai 2 miliardi e mezzo di dollari; Italia e Francia spingono affinché venga accordato almeno in tranche sottoposte a successive verifiche.
Ma mentre gli occidentali sollecitano le due parti a raggiungere un accordo per aiutare la Tunisia a superare la crisi, il capo dello Stato, Kaïs Saïed, si oppone ad alcuni impegni che mettono a repentaglio la pace sociale, a partire dalla privatizzazione delle imprese pubbliche e dalla graduale revoca dei sussidi.
É il cosiddetto cane che si morde la coda; con l’aggravante che parte di questo debito a cui i tunisini devono fare fronte é determinato dagli impegni contratti durante gli anni della transizione proprio con l’Unione Europea. Sostengono infatti alcuni economisti ben informati che sia stata la gestione poco trasparente ed in alcuni casi assurda di questi aiuti che ha contribuito al deterioramento della situazione economica.
La pandemia e la guerra hanno fatto il resto. Scarsità alimentare, aumento esponenziale dei prezzi al consumo di beni primari ma non solo. Al mercato dì Nabeul, preso d’assalto nei giorni delle feste Ramadanesche, c’era penuria di beni e le banane, il cui prezzo era fissato a 5dinari al kg, venivano vendute a 9.
Una parte della giovane generazione al sud sta riorganizzandosi come nei giorni della rivoluzione, su barche di fortuna. Tajani ha lanciato l’allarme perché si teme un ritorno in grande stile dei fratelli musulmani e dei movimenti radicali islamici, ma la vittoria di Sayed fu proprio la risposta laica e popolare al fallimento dell’esperienza del Partito islamico, ma ha tuttavia rigenerato l’idea che si volesse far rientrare dalla finestra ciò che era uscito dalla porta, ovvero un sistema autocratico. Lo scambio ai tempi di Bourguiba, padre della patria e di Ben Alì, fu chiaro: graduali progressi sociali in cambio di un ferreo controllo del paese. La democrazia ha sprigionato nuove energie, ha respinto il rischio di involuzioni teocratiche, ma non ha saputo reggere l’urto di spasmi economici che hanno messo in ginocchio un paese che è piccolo e fragile e senza determinanti materie prime.
Abbandonarlo sarebbe imperdonabile, colpevolizzarlo per le sue difficoltà ancora di più. Speriamo che i vertici di Cartagine comprendano che quel che viene richiesto innanzitutto dalla Comunità Internazionale é il rispetto degli standard civili verso minoranze politiche ed etniche.
E speriamo altresì che il Fondo Monetario non tratti la giovane democrazia tunisina come un paese sudamericano. I tunisini sono eredi di una stirpe millenaria, gelosa della propria identità e della propria sovranità. Una Tunisia più stabile può continuare ad essere una nazione simbolo del multiculturalismo, ed é nostro interesse spingere per definitive e convincenti soluzioni del problema che la sta affliggendo.
Si interrogano però, legittimamente, i tunisini se per caso la loro sorte in bilico non sia anche il frutto della distrazione occidentale; dopo la cosiddetta rivoluzione gli incoraggiamenti economici sono stati molteplici non c’è dubbio, quel che però la transizione post- BenAli non ha saputo garantire é quella stabilità politica che, al netto delle limitate espressioni democratiche, una autocrazia riesce sempre a determinare.
Forse per questa ragione si è data molta fiducia al Presidente Sayed, che ha tuttavia accelerato una torsione autoritaria che ha indispettito gli interlocutori internazionali;
In primis il Fondo Monetario Internazionale di influenza americana che ha avviato un negoziato assai rigido che dura da un anno;
Per fare fronte al fabbisogno interno la Tunisia necessita di un finanziamento che si aggira attorno ai 2 miliardi e mezzo di dollari; Italia e Francia spingono affinché venga accordato almeno in tranche sottoposte a successive verifiche.
Ma mentre gli occidentali sollecitano le due parti a raggiungere un accordo per aiutare la Tunisia a superare la crisi, il capo dello Stato, Kaïs Saïed, si oppone ad alcuni impegni che mettono a repentaglio la pace sociale, a partire dalla privatizzazione delle imprese pubbliche e dalla graduale revoca dei sussidi.
É il cosiddetto cane che si morde la coda; con l’aggravante che parte di questo debito a cui i tunisini devono fare fronte é determinato dagli impegni contratti durante gli anni della transizione proprio con l’Unione Europea. Sostengono infatti alcuni economisti ben informati che sia stata la gestione poco trasparente ed in alcuni casi assurda di questi aiuti che ha contribuito al deterioramento della situazione economica.
La pandemia e la guerra hanno fatto il resto. Scarsità alimentare, aumento esponenziale dei prezzi al consumo di beni primari ma non solo. Al mercato dì Nabeul, preso d’assalto nei giorni delle feste Ramadanesche, c’era penuria di beni e le banane, il cui prezzo era fissato a 5dinari al kg, venivano vendute a 9.
Una parte della giovane generazione al sud sta riorganizzandosi come nei giorni della rivoluzione, su barche di fortuna. Tajani ha lanciato l’allarme perché si teme un ritorno in grande stile dei fratelli musulmani e dei movimenti radicali islamici, ma la vittoria di Sayed fu proprio la risposta laica e popolare al fallimento dell’esperienza del Partito islamico, ma ha tuttavia rigenerato l’idea che si volesse far rientrare dalla finestra ciò che era uscito dalla porta, ovvero un sistema autocratico. Lo scambio ai tempi di Bourguiba, padre della patria e di Ben Alì, fu chiaro: graduali progressi sociali in cambio di un ferreo controllo del paese. La democrazia ha sprigionato nuove energie, ha respinto il rischio di involuzioni teocratiche, ma non ha saputo reggere l’urto di spasmi economici che hanno messo in ginocchio un paese che è piccolo e fragile e senza determinanti materie prime.
Abbandonarlo sarebbe imperdonabile, colpevolizzarlo per le sue difficoltà ancora di più. Speriamo che i vertici di Cartagine comprendano che quel che viene richiesto innanzitutto dalla Comunità Internazionale é il rispetto degli standard civili verso minoranze politiche ed etniche.
E speriamo altresì che il Fondo Monetario non tratti la giovane democrazia tunisina come un paese sudamericano. I tunisini sono eredi di una stirpe millenaria, gelosa della propria identità e della propria sovranità. Una Tunisia più stabile può continuare ad essere una nazione simbolo del multiculturalismo, ed é nostro interesse spingere per definitive e convincenti soluzioni del problema che la sta affliggendo.