L’arresto di Matteo Messina Denaro chiude il ciclo della leadership corleonese, delle sue forme terroristiche ed estorsive di lotta e della sua stessa organizzazione. Per rendersene conto occorre tenere presenti le due ultime sentenze del Tribunale di Palermo .
La prima, del 23 settembre 2021, era presieduta dai giudici Angelo Pellino e, a latere, Vittorio Anania. In data 29 aprile 2019, quindi 29 mesi dopo l’inizio, emise il verdetto di assoluzione dall’accusa di avere minacciato “il corpo politico dello Stato” nei confronti dei principali protagonisti (precedentemente condannati) della trattativa Stato-Mafia.
Si trattava di alti ufficiali dell’Arma dei Carabinieri (il Ros) come i generali Antonio Subranni e Mario Mori, il colonnello Giuseppe Di Donno, e uno dei fondatori di Forza Italia, Marcello dell’Utri. Nelle quasi tremila pagine di motivazioni, invece, ribadite le pesanti condanne, con qualche correzione, nei confronti del braccio mafioso ( L. Bagarella e Antonio Cinà)
Successivamente, in data 6 agosto 1922, nel Palazzo di Giustizia del capoluogo siciliano fu depositata la seconda sentenza. Per mano dei giudici Alfredo Montalto e, a latere, Stefania Brambilla. Nel testo monumentale di 5.252 pagine veniva rovesciato il verdetto precedente condannando tutti i coimputati in divisa e senza, compreso Massimo Ciancimino, con l’eccezione di Nicola Mancino e Giovanni Brusca (questultimo per prescrizione del reato).
Malgrado gli esiti penali diversi e opposti, le due sentenze hanno in comune un episodio fondamentale che era stato oggetto di furibonde polemiche ancora oggi non sopite, cioè la trattativa tra lo Stato (nelle persone dei carabinieri del Ros e indirettamente di ministri come un grande giurista come Giovanni Conso) e la criminalità mafiosa organizzata al suo massimo livello (Totò Rina e Bernardo Provenzano), c’era stata. Non era un più opinabile ludo cartaceo, ma realtà documentale accolta in sede giudiziaria.
Era stata,dunque,una “una grande boiata” dire il contrario come fecero -con in testa Il Foglio– organi di stampa (grandi e piccoli) di ogni diretta, e indiretta, osservanza berlusconiana. La loro perspicacia si limitò ad intuire che il negoziato dello Stato con killers professionisti come Riina, Provenzano, Brusca,Messina Denaro ecc. scivolava verso una porta d’ingresso inevitabile, vale a dire l’abitazione di Berlusconi ad Arcore.
A trattare affari di ogni valore e liceità con la più potente cupola criminale da circa un secolo e mezzo in inesausta attività, non sarebbero stati solo lo stalliere Vittorio Mangano (condannato anche per estorsione e traffico di droga) e un’altra vecchia conoscenza di Cosa nostra come Marcello dell’Utri, ma un grande imprenditore milanese. Era diventato presidente del Consiglio.
Di recente c’è stato l’arresto di Matteo Messina Denaro. Insieme alla gratitudine verso i magistrati e le forze dell’ordine, incombe ora la paura, una grande paura. Verrà replicato il solito vecchio rito di tenerlo in ceppi e poi, con un procedimento giudiziario accomodato e accomodante, rimetterlo in libertà e lasciarlo in una prolungata latitanza\premio ?
Questa domanda corrisponde al dubbio che la stagione delle stragi, con l’arresto del boss di Trapani, si possa dare per finita e non possa, invece, essere riproposto uno scenario raccapricciante come un rinnovato attacco alle istituzioni.
La mafia trapanese consta di 17 unità organizzative di base (le cosiddette ” famiglie”) e di 4 distretti (raggruppanti da 3 a 6 famiglie) chiamati ‘mandamenti’. Che faranno una volta decapitati della leadership dei Messina Denaro?
E’ probabile che la loro identità e il loro ruolo non lo si voglia più continuare a identificare nell’antropologia, nelle strategie stragiste, nelle battaglie all’ultimo sangue e nelle concezioni economiche (sul modo migliore di fare soldi) che si possono trarre dalle biografie dei corleonesi di cui Totò Riina amò circondarsi.
In chi ne esalta la pericolosità (come ha fatto finora un giudice tenace, isolato e coraggioso come Nino De Matteo e il gruppo di togati che, a cominciare da Antonio Ingroia, da anni lo affianca) mi è sembrata la scarsa la considerazione dei mutamenti epocali che sono avvenuti negli ultimi tre decenni nella mafia siciliana.
C’è un crisi del vecchio cesaro-bonapartismo che fece seguito all’arresto dei leaders e dei boss più importanti, Riina e Provenzano. C’è anche probabilmente una crisi nella struttura organizzativa e nell’accumulazione di rendite e profitti.
Davvero un’associazione criminale proiettata a livello internazionale può trarre, e viverci sopra,il 2% del prodotto interno lordo (il che significa circa 104 milioni al giorno e 38 miliardi all’anno, e , come ha calcolato la Banca d’Italia), avendo investito sul traffico di ogni possibile droga e stupefacente, nella prassi estorsiva su appalti, villaggi turistici, agenzie di viaggio, super mercati, sistemi eolici ecc. ?
Si è parlato senza alcuna parsimonia di Messina Denaro come l’erede designato e operativo di Riina. In realtà, egli è la più semplice esemplificazione del membro più noto del vecchio gruppo di potere, ormai presenza abitudinaria consolidata delle nostre patrie galere. Le cose sono cambiate, e da un bel po’.
Il vecchio cuneo apicale che si era formato intorno a Totò Riina dalla fine degli anni Novanta non c’è più. Esiste, e resiste, solo nella narrazione storiografica e giudiziaria del negoziato Stato-mafia, che, com’è noto, riguarda solo un biennio, gli anni 1992-1994.
Infatti la Commissione regionale e quella provinciale (di Palermo) di Cosa nostra non sono più gli organi decisionali di una volta, quelli evocati da Buscetta. Sono stati sciolti o non contano più di tanto.
Non mi pare eccessivo chiedere al Ministero dell’Interno, della Giustizia, degli Esteri, degli Affari europei, di cominciare a studiare -magari insieme agli economisti della Banca d’Italia- un evento che è sotto gli occhi di tutti. Dopo circa 160 anni , la mafia attraversa una crisi, forse gravissima. Non solo di egemonia, ma anche di comando (cioè di leadership) e di profonda difficoltà economica e organizzativa.
Solo in questo modo si spiega quanto percepirono il premier socialista Giuliano Amato e il capo della polizia Vincenzo Parisi all’inizio degli anni Novanta del XX secolo, cioè che soltanto una centrale criminale esterna (ma alleata) a Cosa Nostra, come il terrorismo colombiano, quello palestinese o serbo-croato (era in corso la guerra civile e internazionale nella vicina ex Jugoslavia), potevano fare quello che si è visto a Capaci: mezzo km di autostrada fu divelto e fatto saltare in aria per togliere di mezzo Giovanni Falcone, la moglie e la sua scorta.
Per quale ragione se non per la vastità della potenza di fuoco e dell’intimidazione. subita dallo Stato, Amato( il primo presidente del Consiglio liberal-socialista dell’Italia repubblicana) prese il provvedimento di mandare in Sicilia l’esercito per arginare il terrorismo mafioso? e il ministro socialista Claudio Martelli, nel decreto firmato insieme al ministro degli Interni(il democristiano Vincenzo Scotti),fece estendere -con le resistenze mai celate di metà parlamento- il regime penitenziario col “carcere duro” alla turba crescente mafiosi?
E’ sotto gli occhi di tutti come le strutture del nostro Stato siano state rese ulteriormente più fragili e pervasive dal coinvolgimento di interi settori e apparati nei servizi di protezione della criminalità.Questo indecoroso stato di cose è stato documentato distesamente nelle sentenze,al di là delle differenze negli esiti penali, dei magistrati prima citati,Angelo Pellino e Alfredo Montalto.
Chi,oltre i picciotti e i boss, e la cd borghesia mafiosa, si è potuto spendere in questi servizi se non pezzi istituzionali (solo allo sbando?) dello Stato fornendo compiacenze, iniziative inefficaci e catene di impressionanti errori?
Negli anni 1992-1994 l’Arma dei Carabinieri (il Ros guidato dai generali Subranni e Mori) ha trattato col capo assoluto della mafia (Riina) in nome del contenimento (peraltro mai ottenuto) della strategia stragista in cui avevano perso la vita Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Salvo Lima, Ignazio Salvo, Antonino Caponnetto ecc. Contro di lui hanno perorato l’alleanza col suo vice Bernardo Provenzano.
Ma a lui, mentre andava avanti l”improvvida trattativa” (come l’hanno chiamata i giudici Pellino e Anania), si deve la carneficina di Paolo Borsellino e della sua scorta. Hanno lasciato che i documenti del suo archivio venissero prelevati da un fedelissimo come Messina Denaro.Per non parlare della cintura di sicurezza con cui, non varcando la soglia delle loro abitazioni, hanno assicurato tranquillità a Riina, Provenzano, Balduccio Di Maggio, Giovanni Brusca, Messina Denaro ecc.
Questi criminali implacabili hanno potuto fruire del grande privilegio di molte decine di anni di latitanza,vivendo addirittura al centro di Palermo e nelle sue vicinanze quando non addirittura nei luoghi in cui erano nati e risiedevano.Di qui la sollecitazione a cercare una risposta guardando in casa dello Stato formulato da magistrati come Nino Di Matteo,Roberto Scarpinato,Sebastiano Ardita,Luca Tescaroli,Teresa Principato ecc. In fondo non era stata questa la lezione di metodo e l’esempio di intrepido coraggio, oltrechè di inusitata audacia, del giudice Salvatore ?? che, con i suoi collaboratori,aveva documentato la prossimità alla mafia,per un certo periodo della sua vita politica,di un personaggio della potenza invasiva di Giulio Andreotti?
La Principato,ex procuratrice aggiunta di Palermo,ha attribuito la mancata cattura,dopo numerosi tentativi,del capo mafia alla potente rete massonica di protezione e ai ” vari “ostacoli frapposti“ ,all’interno del Palazzo di Giustizia di Palermo del tempo.
Ostacoli piantati “nonostante gli scenari della cattura fossero molto promettenti“, ha precisato in un’intervista a La Stampa: “Sia io sia altri colleghi cercammo di convincere il procuratore a fermare i colleghi del gruppo agrigentino che volevano procedere all’arresto di un boss che secondo noi ci avrebbe portato dal ricercato. Avrebbero vanificato tutto. Anche i carabinieri del Ros ci parlarono. Invano”.
In secondo luogo non si può confondere l’atto importante di avere bucato la formidabile rete difensiva di Messina Denaro, e di averne determinato l’arresto, con la fine della mafia. Gli arresti dei boss nella storia della mafia,fin quando è stara un’organizzazione verticistica potente e ben insediata nei territori conquistati, non hanno mai prodotto vuoti di potere.E’ una consuetudine e una prassi da non dimenticare, anche se riguarda il passato.
Messina Denaro potrebbe recare luce su moventi e mandanti delle stragi del 1992-1993 e di quelle,sempre nel 1993, nei musei di Roma, Firenze e Milano,in quanto, insieme a Giuseppe Graviano, ne fu uno di maggiori protagonisti.Cosi’ come potrebbe illuminare la vicenda ancora segreta o buia dei contatti e degli ambienti esterni a Cosa Nostra che contribuirono a delineare gli obiettivi e scegliere gli esecutori materiali.
Solo lui può distesamente riferire quali ambienti dall’alto, quindi anche dello Stato, si mossero per accordargli una latitanza durata circa 30 anni,quindi poco normale. A ragione Saverio Lodato ha fatto presente che con le sue confessioni,se fossero sincere, si potrebbe porre fine alla trama dei rapporti Stato-mafia.
Non si può far finta di non conoscere o di sottovalutare quanto di recente ha ricordato una sentenza della Corte d’assise Palermo (giudici Angelo Pellino e Antonio Annia). La riprendo dalle parole di Nino Di Matteo, cioè che vecchi funzionari dei carabinieri “per un certo periodo …avevano coperto Provenzano per interesse nazionale in modo che potesse consolidare la leadership moderata rispetto all’ala stragista. Insomma ci sono sempre state coperture istituzionali. E fino a quando non si chiariranno le coperture e le complicità, allora come ora, non potremo dire di avere vinto”.
Ormai la polemica se, e perchè, durante il biennio (1992-1993) delle stragi seguite alla condanna, anche in Cassazione, di Totò Riina e della sua cupola (i fedelissimi L.Bagarella,M. Messina Denaro, G.Brusca, N. Gioè e G.La Barbera),lo Stato abbia aperto una sorta di negoziato con la criminalità organizzata siciliana, non ha più ragione di esistere.
Mi riferisco al fatto che sul terreno giudiziario è stato sancito qualcosa che non si può più barattare come una favola o un argomento da bar[5], cioè che nei primi anni Novanta tra lo Stato e la mafia c’è stata una trattativa.E si è prolungata ben oltre i primi scambi con un ministro,ch’era un apprrezzato docente universitario di diritto penale, Giovanni Conso.
A promuoverla furono,nell’estate del 1992, subito dopo l’uccisione del giudice Giovanni Falcone, corpi dello Stato, in veste ufficiale e in divisa, anche se non formalmente autorizzati dai loro superiori (inizialmente i ministri della Giustizia Claudio Martelli e dell’Interno Vincenzo Scotti).
Degli ufficiali dei Carabinieri (precisamente il Ros) come il gen. Mario Mori ed il Col. Mauro Obinu a contattarono,tramite l’ex sindaco corleonese di Palermo Vito Ciancimino, la figura apicale della Cupola Totò Riina,per arginare o fare finire le violenze e le stragi mafiose.Facevano seguito, come Riina aveva preannuncia to,al mancato contenimento ed eliminazione delle condanne emesse nel 1986 dal maxiprocesso da parte della Cassazione nel gennaio 1992.
Nel processo del 17 luglio 2013 i due ufficiali furono entrambi assolti dall’accusa di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano.Ma nei procedimeti giudiziari successivi(per esempio quello condotto da Pinelli e Anania), emerse un’altra e diversa verità processuale, cioè che lo stato intervenne a sostegno di Provenzano per isolare la fazione stragista guidata 1986 dal da Riina.
L’esistenza della trattativa viene, dunque,confermata, ma da parte dei magistrati si aggiunge che gli atti in cui si incarnò meritano un giudizio di innocenza, quasi si trattasse di un mero traffico di indulgenze .In primo luogo “per mancanza di dolo” e in secondo luogo-in un successivo processo- perchè, secondo Pinelli e Anania, “furono il frutto di una precisa strategia volta a favorire ‘l’ala moderata di Cosa Nostra’”.
Sarebbe cioè stata promossa a fin di bene, al fine di rendere possibile la latitanza non di un pentito o di un collaboratore di giustizua,ma di un killer un servizio permanente effettivo, Bernardo Provenzano.
I giudici decisero di assolvere Mori e i suoi collaboratori più stretti, respingendo le condanne richieste dai pubblici ministeri nei loro confronti.
Gli esponenti del Ros erano stati accusati e messi sotto processo perchè, dopo aver individuato il covo di Riina e averlo arrestato, non lo perquisirono consentendo cosi’ ad altre mani aguzze (quelle di Messina Denaro) di farlo.Inoltre avrebbero fatto da scudo alla latitanza di Provenzano fornendo soluzioni di ” copertura”.L’ele mento nuovo che viene prospettato dai giudici è la mancanza di dolo nei comportamenti del generale dei Ros.
Mi pare opportuno segnalare una prima inquietante sorpresa. In base alla costituzione repubblicana lo Stato ha il compito di combattere la mafia ad ogni livello e senza distinzioni tra le persone dedite ai delitti. Invece le sentenze (soprattutto le ultime emesse dal Tribunale di Palermo) descrivono carabinieri, ministri ecc., che trattano con essa, cioè vengono a patti. Ovviamente-ci informano i magistrati- questa consuetudine fu instaurata a fin di bene,per far recedere la Cupola dal ricorso a spargimenti di sangue ed esecuzioni sommarie.
Generali e alti ufficiali nel 1992-1993 convocarono riunioni e incontri con esponenti mafiosi sia Roma (in casa dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino) sia a Palermo.Si scordarono di informare delle loro avventurose iniziative i magistrati e i loro comandanti, per non parlare dei ministri.
Con i capi mafia (cioè’ nemici dichiarati e imperterriti dello Stato) questi alti funzionari statali amarono discorrere dei benefici da riconoscere loro (come per esempio l’abolizione del carcere duro,sconti sulle pene o benefici penitenziari),oppure dei modi più acconci per evitare di perquisire i loro covi.
Di tanta signorilità furono beneficiari sia Riina sia il suo sostituto Provenzano e non si può escludere Messina Denaro.Per molti decenni questi programmatori ed esecutori di crimini ripugnanti furono lasciati in pace al fine di preservare gli equilibri interni all’organizzazioni criminale di appartenenza.
Questo giudizio non è una mia estrapolazione o sospetto troppo sopra le righe. Ecco cosa scrivono i magistrati nelle molte migliaia di pagine che neanche i giornalisti, e tanto meno, il pubblico ordinario hanno la pazienza e il tempo di leggere:
“Vi erano dunque indicibile ragioni di ‘interesse nazionale’ a non sconvolgere gli equilibri di poter interni a Cosa Nostra che sancivano l’egemonia di Provenzano e della sua strategia dell’invisibilità”.
Si fanno anche scrupolo di tranquillizzare l’opinione pubblica. Sostengono,infatti, che “E’ confutata l’ipotesi che i carabinieri abbiano agito per preservare l’incolumità di questo o quell’esponente politico”. In ricorso a stermini e realtà, gli imputati avevano posto in essere “non un’iniziativa di polizia giudiziaria, ancorchè spregiudicata, ma un’opera zione molto più complessa e ambiziosa”.
Lo scopo era quello più volte spiegato dai tre ufficiali dei Carabinieri, cioè di avviare, aprire ” Un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi”. Pertanto non si possono fare carte false, montare interpretazioni subdole e diffamatorie su questi servitori dello Stato dal momento che, scrive il Dott. Pellino, questi poveri imputati “furono mossi da fini solidaristici e di tutela di un interesse generale”.
Non esiste nessun’altra prova più eloquente della nobiltà di questi sentimenti e propositi degli imputati di quanto è successo nell’anno che fece seguito alle stragi, cioè nel 1993.Con l’arresto di Totò Riina, “una volta decapitata l’ala stragista …sarebbe stato pensabile e praticabile un dialogo volto al ripristino di un costume di rapporti effettivamente fondato su una reciproca coabitazione, o almeno sull’abbandono di uno stato di guerra permanente”.
Sulla potenza di questi argomenti viene costruita l’assoluzione di Mori e degli altri due carabinieri.Chi ha redatto la motivazione di questa sentenza non ha pensato valesse la pena di spiegare come mai, se la Cupola era mossa da questi moventi umanitari e solidaristici, proprio nel ben mezzo della trattativa ha fatto eseguire la strage di Via d’Amelio, spappolando i corpi di Borsellino e della sua scorta.
Come spiegare questo episodio di infinita crudeltà, che contraddiceva macroscopicamente la litania sui com portamenti a fin bene dai giudici d’appello attribuiti ai boss? La loro risposta è che si trattava di un “rischio” non calcolato, che gli ufficiali del Ros avessero messo nel conto degli eventi possibili e accettato:”.Si può parlare di un calcolo sbagliato,una imperdonabile negligenza e superficialità, ma anche supponenza, nel valutare le conseguenze di una iniziativa che richiedeva un’assunzione di responsabilità politica, che esulava completamente dall’ambito delle loro competenze”.