Cos’è la Cina? La Repubblica Popolare Cinese o la Repubblica di Cina (Taiwan)? Cos’è l’America? Il continente o gli USA? Ovviamente la Cina è quella grande potente e comunista che sta nell’ONU. L’America è certamente il continente ma l’egemonia statunitense è tale da permettere la sineddoche, con buona pace delle altre nazioni sul continente.
Non parlerò di geopolitica ma della sostanza che vince sui nomi. L’argomentazione in realtà però sarà su altro.
Etnie vere e improprie
È molto interessante leggere l’olandese (più propriamente neerlandese perché in realtà gheldriano, ma nei Paesi Bassi l’Olanda, si sa…) Ljphart. Questo politologo, dedicandosi molto alla classificazione delle democrazie, ordinò il concetto di democrazia consensuale: tipica di stati etnicamente o religiosamente variegati, necessitanti di un ordinamento che garantisca pace tra identità molto forti. Similmente, l’Italia repubblicana per Ljphart può essere associata, in quanto democrazia consociativa, a quella cosa là.
Ovviamente non si tratta delle assai troppo rimarcate differenze tra napoletani e veneti, perché l’Italia, culturalmente, è ridicolmente omogenea: stessa religione, stessa lingua, stessi miti fondativi.
L’Italia repubblicana è l’Italia fatta da partiti armati, che erano diversi fra loro più che pesto genovese e carbonara. Differenze come tra musulmani e drusi piuttosto. Ognuno non semplicemente portatore di diverse visioni organizzative ma addirittura con strategie geopolitiche opposte.
Questi partiti, deposte le armi, si radicarono secondo presenze tradizionali (come i repubblicani in Romagna) o per conformità con realtà socioculturali (i comunisti nella Torino proletaria, i democristiani nel sud cattolicamente arretrato) ma anche in base alla dislocazione delle baionette loro o del rispettivo dante causa. I comunisti ad esempio non ebbero certo grande spazio nell’Italia meridionale liberata dagli amer…statunitensi.
Ovviamente poi, in democrazia, la competizione elettorale, il voto d’opinione, eccetera ebbero un ruolo nella ripoliticizzazione del Paese ma la cosa interessante da notare è come tutta la storia primo repubblicana sia stata caratterizzata da movimenti dei consensi assai poco apprezzabili, almeno rispetto alle altre grandi democrazie europee.
Questo per molte ragioni ma tra le principali, sebbene negletto, il fatto che i partiti si familiarizzarono. Neanche il ‘68 riuscì a scalfire troppo questa malattia, la coerenza politica in Italia non era un valore solo personale ma anche familiare. C’era un vanto nell’essere figlio e nipote di una stessa tessera. Per quanto facesse comodo ogni tanto poter dire “mio nonno materno era socialista, mio zio democristiano” ecc. La stratificazione sociale italiana vedeva anche una stratificazione politica, con scarsissima mobilità elettorale, apprezzabile solo nel disgregato polo laico (PSI, PRI, PSDI, PLI, PR) o nei partiti estremistici che, essendo rimasti sempre di dimensioni medio-piccole, erano gli unici aggregati che riuscivano ad avvertire i cambiamenti sociali e demografici sulla propria pelle. Questo fu certamente un vantaggio con la modernizzazione degli anni 80 (la famosa chiacchierata di Craxi che spiegava a Berlinguer cosa si vedeva da Milano che non si vedeva da Torino e Roma).
Oggigiorno, lo zoccolo duro del PD ingoia rospi su rospi perché arenato culturalmente su quel vecchio modello di coerenza irrazionale. In buona parte perché se lo può permettere, dato che l’identità piddina è sovrastruttura della decadente struttura sociale di cui fanno parte privilegiati di ogni ceto e che difendono contro ogni innovazione. L’unione tra ex comunisti e democristiani di sinistra è marxianamente coerente, perché la base sociale è la medesima. Pochi milioni di persone contro decine di milioni cresciute (o sopravvissute) ai margini del consociativismo piddino. Disastroso per la riformulazione democratica del Paese.
Penoso invece che una tale demenza identitaria, scaduta addirittura nel nominalismo, abbia colpito i rottami del PSI.
Piccolo passo indietro.
Il nation building socialista
Si parla sempre del Vangelo Socialista, della grande operazione craxiana sul Pantheon socialista riformista, democratico, liberale e libertario che servì all’emancipazione dai vicoli ciechi marxisti e dall’egemonia culturale comunista.
Rivendicare in Proudhon un progenitore distinto da Marx, rivelando un filo rosso che avrebbe attraversato tutta la storia del socialismo italiano (spesso anche a insaputa dei socialisti stessi), in quel che era il Paese a cavallo tra gli anni 70 e 80, fu un’operazione simile a quella degli sciiti per non dover sottostare al sangue di Maometto aprendo il titolo di Califfo a qualsiasi credente (punto fondamentale per i persiani).
Ma il vero catechismo di questo vero e proprio nation building, fu l’Almanacco dei novant’anni del PSI.
Si trova ovunque, nelle scaffalature delle sedi superstiti, delle associazioni amiche, dei vecchi compagni e spesso tra i rigattieri. Il librone verde oliva, lungo 500 pagine formato A4, che inizia con una nota autografa di Craxi intitolata “Radici”. Una ordinatissima raccolta di documenti e saggi che fanno una cronistoria puntuale da Garibaldi al congresso di Torino, rivelando una storia partitica coincidente con la migliore storia nazionale. 1982, a un passo dal primo governo a guida socialista.
Storia e memoria si conciliano in questo capolavoro di propaganda onesta, sebbene ci sia da fare una nota.
Anche se l’opera non trascura le divisioni e le contraddizioni nel secolo socialista, queste vengono trascese, forse facendo un torto ai loro protagonisti, con un (validissimo) Senno del Poi. I proverbiali litigi socialisti sono proposti come laboratorio di quel pluralismo che il craxismo propone alla sinistra (e al Paese) come alternativa all’egemonia gramsciana (e dunque alle due Chiese).
Sebbene le scissioni avessero fatto tanto male al PSI (e al Paese) queste furono tutte (meno quella di Livorno) dimostrazione di uno spirito democratico e moderno del socialismo italiano. L’unità socialista proposta da Craxi era una pacificazione che offriva alle eresie un tavolo ecumenico invece che una chiesa universale cui sottomettersi.
Il filone Salvemini-Rosselli non aveva più ragione di sentirsi un’altra storia e un’altra memoria, così come quello saragatiano. E questo senza neanche escludere i massimalisti, che nel percorso di Nenni trovavano exemplum di onorevole revisionismo. Molto interessante notare poi molte cose che diamo per scontate ma scontate non furono: la rimilanesizzazione craxiana del Psi e l’elezione di Pertini a PdR furono soprattutto la piena riabilitazione di Turati che prima della guerra era quello della scissione, col grande Matteotti segretario del PSU e non del PSI. Pertini era l’unico vero e proprio turatiano del PSI, Nenni e Lombardi erano ex repubblicani. Nenni addirittura massimalista, alleato con Carlo Rosselli socialista liberale proprio in funzione antituratiana.
Il superamento delle (vecchie) correnti non fu leaderismo ma una vera e propria svolta culturale, una unione delle tribù sotto un’unica bandiera in cui tutti avevano spazio, in cui la coerenza era finalmente una virtù interna delle espressioni e non una virtù estetica delle biografie che, essendo di uomini e non di divinità, erano ricche proprio perché ricche di errori.
Un partito finalmente e pienamente umanitario con dietro finalmente una comunità solida come le altre.
Ciò contribuì anche all’espansione fra la nuova classe media, finalmente “mobile”. Circa due milioni di voti guadagnati in dieci anni di Craxi.
Un’operazione culturale che ottenne grande risultato elettorale, molto più valida della bicicletta col PSDI nel ’68 (l’idea sempee fallimentare che unità sia unire le strutture di ceti politici divisi) ma anche più valida delle clientele territoriali dove si godeva della grandezza del PSI ma dove il Midas non arrivò mai pienamente.
La nazione senza stato
Il nation building nei territori acquistò le caratteristiche negative dell’identitarismo come quelle dell’affarismo, “il legno storto” di cui è fatta l’umanità passò da realismo kantiano ad alibi per lo sbraco. Così la Grande Atlantide socialista non resse al Cataclisma manettaro.
Come la Libia dopo la sua “Primavera” la natura tribale riemerse, il pluralismo precipitò in individualismo e fu un tutti contro tutti. Tanto squallore che gettava ombre sul nuovo mito della nazione socialista abortita: la Passione di Craxi e di tutti i martiri di Mani Pulite.
Mentre l’Italia si lasciava alle spalle le vecchie identità pseudoetniche per il trasformismo postideologico, i socialisti divenivano finalmente una comunità ma una comunità dispersa, sotto l’ingombrante equivoca ma puntuale metafora della Diaspora. Sotto un duro genocidio culturale parallelo al declino italiano.
Ma il socialismo, persino nella sua età dell’oro craxiana, era più grande del PSI.
Nel ’78 era stato pubblicato da Laterza il dibattito curato da Paolo Mieli “il socialismo diviso” e dopo quasi dieci anni nonostante la crescita craxiana nell’87 uscì per Einaudi “La questione socialista” in cui tanti intellettuali segnavano un profilo ben più vasto dell’intransigente ecumenismo craxiano.
Inoltre il lamalfismo, col suo moralismo azionista e le sue razionalità liberali, stava dando sostanza all’involucro berlingueriano, determinando la mutazione genetica dei comunisti in socialdemocratici neoliberisti sotto le insegne del giornale La Repubblica.
Il psdi di Vizzini riuscì a giocare bene nei palazzi la concorrenza al PSI già sfregiato, e i radicali di Pannella, vera e propria setta illuminata, fecero la loro ambigua parte contro. Insieme fecero sorgere Scalfaro.
Finito il Craxismo, quell’elettorato pluralissimo si disperse. La comunità militante socialista pure e invecchiò male assai nel transpartitismo.
Adesso non c’è dubbio che lo stato del Paese necessiti di un grande progetto politico socialista, che ne risolva la crisi di missione. Il riformismo terzopolista riprende il filo di quello craxiano ma manca di quella lungimiranza sociale. Il reddito di cittadinanza, già negli ultimi programmi socialisti, era la sfida al consociativismo fondato sulla cassa integrazione ridisegnata da Prodi prima del governo Craxi, non un ulteriore carico assistenziale e clientelare. Anche il socialismo tricolore ed euromediterraneo sarebbe oggi una valida soluzione alla frattura in corso tra europeismo, terzomondismo ed atlantismo contro ascari e sovranisti.
Tutto questo è fuori dalla portata dell’attuale psi, ed è in contrasto con la base sociale e programmatica piddina. Purtroppo però l’identitarismo di nazione abortita tiene ancorata la comunità socialista a nevrosi narcisistiche di fatto profondamente antisocialiste. Per cui Nenni è come la fiat 500 e Craxi come le canzoni dei Beatles: la storia è solo la loro memoria e la coerenza è quella misticheggjante dell’ultimo giapponese che invece di costruire il Giappone democratico restava nella giungla ubbidendo a parole d’ordine anacronistiche. L’unità socialista può essere solo uno strumento ma non un obiettivo, e come strumento è evidentemente spuntato. Ci vuole una grande e nuova evangelizzazione piuttosto.