Di Lucia Abbatantuono
Un certo Aristotele secoli fa sosteneva che “la forma è sostanza” e come lui molti altri pensatori, non ultimi gli esistenzialisti di metà Novecento, asserivano che la parola è quanto di più concreto esista nella vita di un uomo, perché le parole sono fatti, anzi, le parole hanno il potere di precorrere i fatti fino a plasmarli.
Lo stesso Umberto Eco, poco prima di lasciare questo mondo che a lui già non piaceva più, volle ricordare che l’incapacità di saper esprimersi correttamente e sensato denotasse la decadenza irrefrenabile e irreparabile dei tempi contemporanei.
Allora, se tanto Eco quanto Aristotele avevano ragione, il declino della nostra società è riflesso in modo indelebile nel tipo di linguaggio adoperato ormai ovunque. E non ci riferiamo soltanto alla comunicazione dei mass media, che è quella che entra (anche non invitata) nelle case di tutti, nelle auto di tutti, e nei luoghi di lavoro di tutti.
Ma pensiamo anche alla comunicazione verbale che ascoltiamo pure solo camminando per strada, o fermi al semaforo, o attraversando da bravi cittadini sulle strisce pedonali, o in coda alle poste o in fila dal salumiere: un linguaggio permeato di violenza e aggressività più o meno latente.
Se le statistiche non sbagliano, il disagio e il malessere dei nostri adolescenti, cioè di quello che saranno il futuro di questa società, sono numerati su assi cartesiani ben chiari: siamo sul baratro, perché le cifre dimostrano come questi soggetti siano bloccati, spaventati, e come si rifiutino di interagire con altri soggetti, la cui aggressività di certo non può aiutarli a reagire.
Sarà forse che anche a loro basta ascoltare il linguaggio a dir poco bellico che ci investe da quando apriamo gli occhi fino a quando andiamo a letto, per fuggire dal contesto. Il problema non è soltanto il governo, che con tinte più o meno fosche porta in scena un revanscismo che ha perso anche l’ultima soglia di pudore: il linguaggio utilizzato dal ministro della cultura, così come le parole usate dal ministro dell’economia, la dialettica del ministro degli interni e la stessa sintassi (così densa di punti esclamativi) del ministro dell’istruzione e “del merito” non lasciano dubbio alcuno sulla deriva totalitarista che questa nuova tipologia di amministrazione della Res Publica vuole infondere nelle teste dei cittadini. Una tipologia di comunicazione che ha tutto, tranne che meriti di cui vantarsi.
Limitare i termini stranieri utilizzati nel gergo comune potrebbe essere accettabile, ma resta sbagliata la forma della lista di prescrizione. Ascoltare sempre i soliti imprenditori che, con forte accento lombardo-veneto in prime time, mentre sottofondo parte la marcia di Radetzky, sostengono quanto sia importante smetterla di emulare gli stranieri virtuosi per concentrarsi sulla ventilata e innata bravura italiana è un evidente, ulteriore segno di chiusura e presunzione.
È interminabile la lista dei pensatori che nel corso della Storia (questa sconosciuta) ci hanno insegnato che il vero progresso nasce dal confronto con gli altri, e soprattutto con chi è migliore di noi; dunque, negare che qualcuno possa essere migliore degli italiani significa non solo chiudersi in una forma vergognosa di autoaffermazione, ma soprattutto impedire a chiunque di provare a diventare migliore, a evolversi, a oltrepassare il recinto della proprio ristretto orticello.
Viviamo nell’era della presunzione: termine la cui etimologia ci riporta al concetto del pre-sumere, cioè “essere” prima ancora di valutarsi, o di confrontarsi. E chi presume, troppo spesso sbaglia. I numeri dei giovani che sceglieranno di chiudersi in se stessi, o dei meno giovani che sceglieranno di abbandonare questa nazione, continueranno a crescere se non torneremo ad usare un linguaggio gentile, garbato e aperto, in idioma italiano o straniero che sia.
La gentilezza è la vera rivoluzione, perché la gentilezza apre la strada all’altruismo. I metalmeccanici dell’ILVA, o quelli di Melfi, l’agricoltore della basa emiliana, non sanno cosa farsene della chiusura, comunicativa o meno: perché ne hanno fin sopra i capelli delle catene di montaggio.
Andiamo a chiederlo all’allevatore della malga piemontese, quando munge le sue fassone alle quattro di notte, cosa significa alzarsi prima dell’alba e vedere all’orizzonte solo l’infinità del cielo e la vastità delle cime, e nonostante tutto dover sopportare le parole altisonanti ma claustrofobiche dei nostri governanti.
Bisogna andare oltre i propri confini. Bisogna andare oltre la grettezza che ci fa presumere di essere migliori, perché questo è il preludio del nostro totale affossamento sociale. E politico.
Goethe non sbagliava nell’affermare che la gentilezza è la catena d’oro con la quale la società viene tenuta insieme. Ricordiamolo più spesso.