di Caterina Cazzato
La “famiglia” è il tipo di assetto che, nel 2001, ho scelto per organizzare la vita in comune con il mio partner e per avere dei figli; scelta libera e consapevole.
La “famiglia” nella percezione comune attuale più diffusa è sia quella tradizionalmente intesa ossia composta da padre e madre eterosessuali – la più diffusa – con o senza figli o famiglia allargata o famiglia di fatto o famiglia composta da componenti dello stesso sesso; nessuno e, soprattutto, nessun giovane si scandalizza difronte a tali soluzioni di vita.
Solo, anacronisticamente, fra gli opinionisti e in politica, si registrano casi di propalato disappunto moralista finalizzato per lo più ad alimentare campagne elettorali populiste.
Tornando alla mia scelta, posso affermare con sicurezza che essa sia stata determinata, oltre che dai sentimenti e dalla gioia di vivere, anche dalla mia esperienza positiva maturata nella famiglia di origine e dal mio bagaglio culturale, contenente valori mutuati dalla religione cristiana.
Nessuno mi ha limitata in tale scelta, principalmente perché è sempre stata quella preferita dai miei genitori come dalla maggior parte delle persone, in Italia; inoltre sono eterosessuale e ciò non alimenta alcuna curiosità; c’è da dire che non mi incuriosisce nessun altra scelta sessuale e che per me non è discriminante ma che, com’ è facile riscontrare, suscita sempre qualche interesse.
Se qualcuno mi avesse limitata nella scelta di avere o no una famiglia, ne avrei sofferto.
Allo stesso modo, avrei sofferto se fossi stata omosessuale e se qualcuno avesse cercato di limitare le mie scelte di vita o i miei diritti di cittadino.
Prima di sposarmi, mi sono resa conto dei conflitti generazionali in corso, delle difficoltà espressive delle giovani donne dovute ai vincoli sociali, che le avevano indotte a scelte di vita a cui avevano finito per arrendersi nonostante i talenti e le qualità che nessuno avrebbe mai riconosciuto se non in punto di morte, e mi sono impegnata quanto più possibile per conseguire i titoli di studio che mi avrebbero consentito di inserirmi dignitosamente nel mondo del lavoro e nella società, anche per avere la possibilità di essere madre e di poter mantenere me e almeno un figlio, in caso di avversità, in quanto il matrimonio (civile o religioso), almeno dal 1975, non è più un investimento o un’ assicurazione e perché per me non è mai opportuno dipendere economicamente da un’ altra persona, sebbene coniuge (ma rispetto anche gli altri punti di vista, purché le persone siano soddisfatte).
Va considerato che il costo della vita, dagli anni 70 del ‘900 è in costante aumento, che il livello medio di istruzione si è di pari passo elevato rendendo i gusti e le esigenze di tutti conseguentemente più raffinate e che, nel contempo, le dinamiche economiche hanno reso più difficile l’ accesso al lavoro e quantitativamente inferiori le opportunità di crescita e di guadagno dei lavoratori, in Italia – motivo per cui quasi sempre è necessario che in una coppia entrambe le parti lavorino per poter sostenere decorosamente i costi della vita.
Non va dimenticato che la pregevole e indispensabile attività di cura prestata da chicchessia in famiglia è un’ obbligazione naturale, per definizione, non remunerata.
Sono nata nel 1970: le italiane della mia generazione hanno un debito nei confronti delle donne che in precedenza hanno lottato sacrificandosi per affermare pari opportunità sociali e sul lavoro per le donne rispetto agli uomini, a garanzia dei diritti, a partire da quello di voto.Queste donne, persino arrivando ad emulare atteggiamenti maschili, hanno consentito l’affermazione dell’identità femminile.
Il debito si paga con la conservazione della memoria delle conquiste sociali conseguite, con la difesa delle libertà, dell’ uguaglianza e del rispetto dei diritti umani in ogni ambito.
Io sono democratica, liberale, prendo atto dei fenomeni sociali che si verificano attualmente e quindi tollero l’autodeterminazione degli individui, nel rispetto delle leggi; pertanto, per me non c’ è differenza fra le famiglie dall’ assetto tradizionale (madre, padre, figli naturali o adottati…) e famiglie con altro tipo di assetto, dettato da orientamenti sessuali diversi da quello numericamente prevalente o da scelte differenti.
Non enfatizzo le differenze fra tipi di scelte umane che vengono poste in essere perché lo ritengo superfluo se non strumentale a interessi lobbistici che non mi appartengono – ci sono le norme a presidio dei comportamenti lesivi dei diritti e le sanzioni che le autorità competenti dovranno applicare.
Allo stesso modo, ritengo inutile e persino controproducente che la scuola e la politica si occupino di stigmatizzare situazioni personali, se non per prevenire e punire condotte illecite, che credo vadano lasciate alla sensibilità e all’ intimità dei singoli proprio per evitare che vengano elevate al rango di criticità.
Perciò sostengo che, nell’ambito del rispetto della vita umana, non si possa che tutelare il figlio nato da madre surrogata (cosa che le attuali metodiche scientifiche, piaccia o meno, consentono), come qualsiasi altro essere umano e che le scelte morali dei suoi genitori spettino a loro stessi.
Lo Stato per me è laico e non deve intervenire nelle questioni di coscienza e di etica morale.
I bambini ci insegnano come sia facile accogliere il prossimo senza pregiudizi: facciamo tesoro del loro esempio di capacità di accoglienza e della bontà che li anima, cercando di non contaminare i loro pensieri puri e la società del futuro sarà più civile.
2 commenti
pienamente condiviso
A me sembra che nel Belpaese ciascuno di noi possa gestire come crede la propria vita sessuale e sentimentale, salvo il suscitare un po’ di cruccio, e semmai disapprovazione, di fronte a taluni atteggiamenti che si vorrebbero più sobri e meno ostentati, ma tutto ciò non lede né limita in alcun modo la sopraddetta libertà.
Il problema, a mio vedere, sta nel chiedersi se il Paese debba avere o meno un modello di società cui ispirarsi, e che agisca per così dire da bussola nell’orientare le nostre condotte e costumanze, indipendentemente dal fatto che vi possa esservi chi quel modello non lo voglia o possa rispettare, per ragioni varie
Io sono dell’idea che un modello del genere sia utile ed opportuno, ritenendo che in assenza di impianto valoriale una collettività rischia il disorientamento, come credo stia succedendo ai giorni nostri, dopo che per anni è stato messo in atto lo “smantellamento” del preesistente modello (famiglia tradizionale inclusa).
Sono parimenti consapevole che il sistema valoriale può anche avere talvolta tratti non privi di qualche retorica, ma mi pare preferibile una siffatta eventualità rispetto al vuoto che va a crearsi allorché lo si perde, o lo si respinge, e penso altresì che senza un patrimonio valoriale ne vada oltremodo a soffrire pure la nostra identità.
La questione identitaria è notoriamente controversa, essendovi chi la vede quale possibile anticamera di tentazioni razziste, ma io reputerei comunque non sbagliato parlare di etnie portatrici delle rispettive culture e tradizioni, che vanno doverosamente rispettate, accreditando nondimeno il primato a quelle del Paese ospitante.
Primato non significa affatto superiorità, ma riconoscere che nello scorrere del tempo le nostre comunità, come del resto altre, hanno messo insieme, non sempre facilmente, valori comuni, sul piano civico, religioso, ecc …., facendoli coabitare con le specificità dei vari territori, borgate, campanili (ossia il modello che avanti dicevo).
Paolo Bolognesi 27.08.2023