di Lidano Grassucci
Si sente il rumore di un albero che cade, meno si vede la foresta che cresce. Si parla tanto di immigrazione. Meglio, la politica ultimamente specula sulla immigrazione. Lancia allarmi su invasioni o si fa così buona da essere stucchevole, i latini dicevano che la virtù sta nel mezzo.
Voglio parlarvi degli indiani, si di questa comunità “difficile” che manda avanti la nostra agricoltura (quella di cui siamo fieri quando parliamo del made in Italy) quelli che ora fanno anche la nostra sartoria e che ringraziamo quando ci rifanno l’orlo ma imprechiamo quando ci accorgiamo che sono tanti. Una comunità che è stata oggetto di analisi sociologiche da prime pagine e con ragioni. Storie di caporali, sfruttamento, povertà che resta e tutta.
Ma mentre si seguivano le medesime ragioni gli uomini di quella comunità che stanno in Italia e viaggiavano a piedi, sono passati alla bicicletta, poi al motorino, proseguendo con la Uno usata ora viaggiano su Hyundai nuove di zecca.
Sono arrivate le famiglie e le donne indiane con i loro bimbi e le carrozzine popolano i nostri vuoti centri storici, i nostri tristi centri commerciali. I ragazzi si sono fatti grandi e vanno nei liceo scientifici (del resto hanno inventato i numeri e pure lo zero, mica prosperi), e quando la scuola non c’è sciamano con gli altri in centro, in speranze italiane.
I ragazzi fanno la fila nei negozi di scarpe sportive, si affacciano in quelli di abbigliamento. Insomma stanno aggiungendo ai loro usi, quelli del paese che li ospita, con discrezione, con l’aggiungere anche a noi cose che non conoscevamo.
Ragazzi e ragazze indiane passeggiano ridendo dentro le nostre città, e spesso in gruppi che prescindono dalla nazionalità. Eppure non esiste pubblicistica di questo, perché raccontiamo sempre l’orrore, che c’è, ma rimuoviamo l’evoluzione che non c’è di meno. Se però parli di questo non vinci premi, serve il mostro mai le vite vere.
Nei racconti dimentichiamo sempre quando i poveri eravamo noi, nei racconti non vediamo i poveri che conquistano la loro dignità, per riscattarsi da umiliazioni che sanno, e che ci stanno.
Ma è bello vedere gente che viene qui a sperare quando noi non ne siamo più capaci, che pensano al meglio quando noi piangiamo il peggio.
1 commento
Indiani? Sì, ho sentito che nell’agricoltura sono molti a lavorare. Ma poi la maggioranza in Itaklia non sono indiani ma del Bangladesh. Che, ai nostri occhi, si assomigliano tutti. Bangladesh.