di Giovanni Crema
Il Vajont (9-10-1963) fu un evento dirompente non solo per la portata delle sue conseguenze (si trattò della prima e più grave catastrofe dell’Italia del secondo dopoguerra) ma anche per il modo con cui essa fu raccontata fin da subito essa fu presentata ricorrendo ad una espressione che poi sarebbe divenuta familiare all’opinione pubblica: quella di “catastrofe annunciata”.
Andarono certamente in questa direzione le durissime parole che l’avvocato Sandro Canestrini usò in occasione del processo volto ad accertare le responsabilità del disastro, celebratosi all’Aquila nel 1969: “il Vajont” – disse – “non è la tragica eccezione al sistema, ma la conferma di esso: in questa vicenda veramente non è accaduto nulla di eccezionale. Solo, come spesso succede, c’era un rischio, prevedibile e previsto”. Nessuna imprevedibile vendetta di una natura matrigna, dunque. Ma superficialità, scarsa lungimiranza.
Al tempo del dolore, della rabbia, delle accuse, subentrò quello del “che fare”. La volontà di chi è scampato al Vajont è unanime. Longarone va ricostruita come era e dove era. Al posto del sindaco Celso, scomparso e che era stato a lungo uno dei denuncianti dell’incombente pericolo, c’era il vice-sindaco Terenzio Arduini, anch’esso socialista, che l’aveva sostituito, che dedicò tutte le sue energie alla rinascita della sua terra.
E mentre scatta la solidarietà degli italiani e quella internazionale, si intensificarono le iniziative per ritornare alla vita, appunto alla ricostruzione materiale e morale di una comunità che ha pagato un prezzo assolutamente ingiustificato al progresso e al profitto.
La tragedia del Vajont avviene mentre sono in essere due significative transizioni, quella dalla SADE, società privata che costruì la diga, all’ENEL, appena nato, grazie alla nazionalizzazione dell’energia elettrica del 27 novembre 1962. Transizione di organizzazione e di gestione con tutto quello di precario e negativo che si manifestò la notte del 9 ottobre 1963.
La seconda che vede il difficile e delicato passaggio dal governo di centro-sinistra guidato da Amintore Fanfani a quello di centro-sinistra organico di Aldo Moro che costò al P.S.I. La scissione del PSIUP in un clima di “feroce” opposizione del PCI.
Attingendo alla imponente letteratura e pubblicistica prodotta sul primo grande disastro dell’Italia repubblicana, ma anche e soprattutto agli atti parlamentari e all’inedito materiale documentario che Giovanni Pieraccini raccolse nella sua veste di ministro dei Lavori pubblici e che adesso sono conservati presso gli archivi della Fondazione di studi storici “Filippo Turati” di Firenze, si concentra su una fase meno studiata di questa vicenda, quella della genesi della legge n. 357 del 31 maggio 1964.
La legge per la rinascita fu emanata il 28 maggio 1964 e l’allora ministro dei lavori pubblici il socialista Giovanni Pieraccini ricorda che nonostante la dura contrapposizione politica del momento il parlamento discusse a fondo la legge, la migliorò, l’affrontò con serenità. Alla fine ci furono soltanto quarantun voti contrari. Almeno dinanzi alla catastrofe prevalse la coscienza della necessità di unirsi nell’interesse del paese. Nella legge vengono organizzati ed ampliati i sistemi d’indennizzo e la ricostruzione assume l’obbiettivo più ampio dello sviluppo sociale ed economico della valle del Piave e delle vicine aree friulane. Quindi il testo legislativo si pone strategicamente come obbiettivi la rinascita economica, la ricostruzione edilizia ed il piano comprensoriale. Quest’ultimo entra nella legge forte delle elaborazioni dei più innovativi urbanisti e della cultura politica riformatrice della sinistra di governo. Figlio del clima politico e delle aspettative legate alla stagione del primo centro-sinistra, il dibattito attorno alla normativa sul Vajont fu particolarmente interessante non solo per le questioni direttamente connesse al disastro, alla gestione delle emergenze e del territorio ma anche per aver anticipato strumenti nuovi (ad esempio i piani comprensoriali) per la pianificazione del territorio ed accelerato il confronto tra le forze politiche attorno a questioni di primaria importanza, su tutte quello della definitiva e piena attuazione dell’autonomia regionale.
La “legge speciale” assume con il P.S.I. al governo l’ assetto definitivo ed alcuni aspetti profondamente innovativi e propositivi che supererà le carenze e le inadeguatezze del primo intervento legislativo nato nell’emergenza del dopo disastro e nella precarietà del momento politico di transizione governativa ma porterà con se l’eredità delle leggi speciali degli anni del centrismo che ne limiterà l’attuazione e l’efficacia.
A tal punto che durante i mesi della decisione e della gestione degli interventi qualcuno sostenne che mentre i ministri socialisti a Roma programmavano i democristiani veneti e bellunesi ritardavano l’elaborazione e l’attuazione del piano comprensoriale (ritenuto a ragione profondamente all’avanguardia) e pertanto il depotenziamento delle parti più significative della legge speciale.
“Nonostante il sincero entusiasmo manifestato dal ministro Pieraccini, da Samonà e da molti di coloro che si adoperarono per una ricostruzione dei luoghi e una rinascita nella modernità, da fuori non riuscì a immedesimarsi nell’animo dei superstiti, nello spirito dei luoghi”, Giovanni Pieraccini scrive “la legge stanziò una somma molto grande per l’epoca: trenta miliardi. Fu la prima legge urbanistica di comprensorio, fu il primo piano comprensoriale urbanistico sociale-economico che vide all’ opera sotto la guida dello Stato, ma con l’accordo dei Comuni, i più illustri urbanisti”. Sarebbero risorti i vecchi paesi (come Longarone) rinnovati, con case igeniche e nuclei industriali con forti incentivi per le industrie private ed eventuali interventi dell’industria pubblica. Sarebbe stato il primo esempio di programmazione dello sviluppo. Dietro la legge del Vajont si prospettava la programmazione economica nazionale, la nuova legge urbanistica, la riforma dello Stato.
“il Vajont fu l’ occasione per sperimentare sul campo uno strumento di pianificazione sul territorio che da tempo era al centro del dibattito sulla questione urbanistica” ed inoltre “non è sbagliato affermare che il progetto Samonà, con il suo utopistico progetto destinato per via dei successivi aggiustamenti a rimanere a metà del guado, era il centro-sinistra”.
2 commenti
Molto interessante….peccato che gli interessi di bottega della corporazione democristiana dei “giometri” d’assalto locali, abbiano finito con lo storpiare la visione di Samonà e dello IUAV; una visione ancora troppo fragile di un’avanguardia urbanistica che ha finito con l’infrangersi contro quelle spigolose rocce rispecchiando, nel costruito d’oggi, la mistificazione del moderno come fu quella del progresso innalzato da quella maledetta diga.
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