Di Maurizio Ballistreri
Nel 1982 il giornalista, saggista e ministro della Repubblica Alberto Ronchey scriveva un celebre saggio “Chi vincerà in Italia? La democrazia bloccata, i comunisti e il fattore K”, destinato a diventare un classico della politologia nel nostro Paese.
In esso si analizzavano le prospettive della politica in Italia, nel quadro del “bipolarismo imperfetto” della Prima Repubblica tra Democrazia cristiana e Partito comunista.
Ai giorni nostri il quesito appare ancora lo stesso, come testimoniano i risultati dell’ultime elezioni amministrative, anche se l’alternativa oggi riguarda il rilancio della politica democratica.
La politica in Italia appare per un verso espropriata dell’esercizio delle funzioni che ad essa la democrazia liberale attribuisce, da parte dei “poteri forti” della finanza e suoi chierici tecnocratici e, per un altro, messa alla gogna dalle ricorrenti ventate dell’antipolitica – giustizialismo, leghismo prima maniera, grillismo e altre manifestazioni per certi aspetti neoqualunquistiche durante la cosiddetta “Seconda Repubblica” – alimentata dagli errori e dai guasti di classi dirigenti di ectoplasmi di partiti, spesso percepiti come impresentabili.
Eppure, esiste una forte domanda di partecipazione alla politica, per un ritorno alla democrazia intesa come espressione della sovranità popolare, nella gestione delle istituzioni pubbliche espropriate dalla tecnocrazia: una vera e propria istanza di un ritorno alla democrazia nelle scelte pubbliche.
E, assieme alla domanda di partecipazione alla vita democratica, è presente la rivendicazione di una parte importante dei cittadini italiani di una vera politica riformista, che introduca elementi di equità nel sistema fiscale e in quello sociale e, quindi, di una forza politica di sinistra che ne assuma la rappresentanza e che nell’area dei paesi occidentali è rappresentata dai partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti.
Sul terreno di un vero riformismo, al posto di tante stucchevoli polemiche sulla patrimoniale, basterebbe rendere effettivo il principio costituzionale della progressività delle imposte, inasprendo quella per i super-redditi e per banche e assicurazioni, e tassare i capitali depositati nei paradisi fiscali. Sul secondo versante si devono tagliare i privilegi, a partire da quelli previdenziali, e riorganizzare un nuovo sistema di welfare inclusivo e promozionale, mentre non è visibile una vera battaglia contro l’autonomia differenziata, strumento di una nuova cesura tra Nord e Sud del Paese, a danno ovviamente ancora una volta di quest’ultimo.
Elementi nel quadro di una politica economica anti-ciclica, che stimoli i consumi anche attraverso l’incremento delle retribuzioni – che pure scontano le miopie delle strategie sindacali sul versante della contrattazione – e, quindi, la produzione e, in ultima istanza, l’occupazione.
Un riformismo che tenga conto dei processi di deglobalizzazione in atto, conseguenti allo scontro geopolitico tra Stati Uniti e Russia, che ha come epicentro l’invasione in Ucraina, e al conflitto economico nei confronti della Cina che il G7 è sembrato volere inaugurare a Hiroshima e che governi severamente la finanza, intesa quale principio regolatore dell’attività economica.
Serve una sinistra autenticamente riformista, che non guardi solo al mondo Lgbt e non si perda dietro la tutela dei contratti milionari di Fazio e dell’Annunziata e dei ceti privilegiati delle ztl o l’armocromia della Schlein e le istanze di Davos, ma riparta dagli ultimi, dai ceti più deboli, dall’istruzione e dalla ricerca, dai diritti sociali, dal riequilibrio territoriale, una sinistra che – come ricordava Norberto Bobbio – abbia come stella polare l’eguaglianza.