Chissà quanti, tra coloro che leggeranno queste righe, hanno avuto la fortuna di studiarne la traduzione di Vincenzo Monti, e si sono esercitati a farne la “versione in prosa”, penetrandone fino in fondo i temi profondi del vivere umano, che non sono poi così distanti dalle vicende della vita moderna, e, perché no, anche se accostati alle storie della politica.
Era l’Iliade e dai versi di Omero si percepiva che il fronte acheo era tutt’altro che compatto specie perché aveva inviso Agamennone, un despota descritto, dai più classici degli autori delle tragedie greche, come un uomo autoritario e prepotente, arbitro cinico della sorte dei figli Elettra, Ifigenia e Oreste, e della moglie Clitennestra, e ossessionato dalle sue mire espansionistiche.
Un fronte che invece trovò le ragioni della sua unione, non tanto per la vicenda di Menelao fratello minore di Agamennone reso becco nel suo letto e sotto il suo tetto, piuttosto perché ingolositi dal mettere le mani su Troia, e sul suo tesoro, all’epoca considerata la più imponente potenza militare esistente.
E Agamennone (che in greco significa molto determinato) costruì il mito del “nemico comune” e riuscì a radunare tutti i Re Greci per condurli nella più grande impresa militare della storia antica.
Il “nemico comune” compatta, annulla le differenze, azzera le distanze: come successe allora e come è successo non molti anni fa.
E già perché, all’indomani dell’avvento del fascismo, il resto dell’arco politico italiano che non era fascista aveva al suo interno più di una divisione e più di un distinguo. E anche tra le forze della sinistra il divario e le distanze che si erano create tra socialisti e comunisti crescevano sempre più, alimentate dalle vicende russe e da come queste si evolvevano dall’avvento di Stalin nel 1922.
Ma la progressiva crescita dell’autoritarismo fascista, il graduale annullamento di ogni forma di libertà e la cancellazione sequenziale di qualunque regola che garantisse il funzionamento democratico del paese, servirono a unire anche chi era profondamente distante.
E fu così che con lo scoppio della guerra, e con l’insorgere del movimento partigiano, se ne andarono al diavolo la scissione del 1921, gli scritti di Turati e Treves, le lettere di Matteotti ai dirigenti comunisti, e si ritrovarono tutti nel grande rassemblement della resistenza perché allora l’obiettivo primario era, e non poteva essere diversamente, abbattere la dittatura fascista e liberare l’Italia dall’oppressione nazista.
Un nemico comune che riunì gli sforzi in una unica armata, ma non annullò le distanze ideologiche e politiche.
Differenze che risorsero all’indomani della liberazione e nei primissimi anni della costruzione dello stato democratico e che furono interpretate, da Saragat e da Nenni, nella loro disputa sulla alleanza con i comunisti e che trovarono la loro sublimazione nella scissione di Palazzo Barberini.
Ma anche durante la lotta al fascismo ci furono passaggi significativi in cui si potette percepire quante differenze ci fossero tra le componenti che costituivano il fronte partigiano.
La storia narra di condotte e metodi ben diversi tra le brigate partigiane cattoliche popolari, quelle socialiste e quelle comuniste.
E fu Pertini, un socialista, che irruppe a Piazzale Loreto per far scendere i corpi appesi di Mussolini, della Petacci e degli altri gerarchi e per interrompere l’orrore della crudeltà della massa che nessuna infamia, tra quelle commesse da Mussolini e dai capi fascisti, poteva mai giustificare.
“Io il nemico lo combatto da vivo e in piedi e non da morto e steso per terra,” urlò inferocito alla canea urlante, che stava infierendo sulle salme, quello che poi divenne il Presidente della Repubblica più amato dagli italiani.
Stefania Craxi, in una sua recente intervista, ha raccontato che un giorno accompagnò Bettino a deporre dei fiori a Giulino, sul muro dove fu fucilato Mussolini.
Era un sentimento forte, quello espresso a distanza di anni dai due leader socialisti, che significava una pietas che quando appartiene a una persona, o a una comunità di persone, non è il frutto di un caso o una piega del carattere ma è il risultato di una cultura che viene seminata nel tempo e che si sedimenta tra le coscienze diventando parte integrante del modo di essere di un certo tipo di genti.
È la stessa pietas, la εὐσέβεια, che indusse Achille a rilasciare a Priamo il corpo esanime di Ettore, ammirato dal coraggio del Re che si era avventurato da solo nel campo Acheo, ma anche mosso dal rispetto per la morte, e per le spoglie del principe troiano, cosciente che qualsiasi accanimento, su un corpo che Θάνατος aveva lasciato inerme a terra dopo averne aspirato il soffio della vita, era un inutile atto di brutalità contrario ai valori dell’epica, ma anche dell’umanità.
Perché nel momento in cui il nemico muore termina tutto, l’aquila alata della vittoria inizia a volteggiare sul campo di battaglia, le vendette sono consumate, le colpe sono pagate, le conquiste di libertà sono raggiunte e completate e ogni ostilità deve cessare altrimenti si trasforma nel più crudele degli accanimenti.
Il 25 aprile è una “festa” che non è mai stata solo comunista, nonostante gli sforzi per egemonizzarla e farcela diventare. E considerarla tale è un chiaro errore.
La festa della liberazione è la festa degli italiani che lottarono per la libertà e la conquistarono con il proprio sangue e il proprio dolore, cui parteciparono tutti. Ma non furono tutti uguali, per come iniziarono la loro lotta all’avvento del fascismo, per come combatterono durante la guerra, per come si comportarono dopo e durante la costruzione dello stato democratico, per come credettero nella libertà.
Perché se combatti per la libertà non puoi al contempo inneggiare a chi, poco lontano, la libertà la nega al prezzo del sangue di migliaia di donne e uomini.
Non furono uguali per le diversità che la storia ha raccontato e continua a narrare, non lo furono e non lo sono perché oggi c’è anche chi pensa che una festa come quella del 25 Aprile ha senso soprattutto se celebra la liberazione da tutte le dittature e da tutti gli strumenti di oppressione che si chiamino lager, gulag o laogai.
Perché oggi c’è chi pensa che al di sopra di tutto c’è quella pietas, narrata da Omero, sentimento degli uomini giusti.
1 commento
Commoventi e intelligenti queste radici classiche del SOCIALISMO Di PERTINI E DI CRAXI, calpestate dai comunisti italiani che si ingegnarono per liquidare MORO E CRAXI.
Ma QUANTA AMERICA c’è dietro la STORIA D’ITALIA DAL DOPOGUERRA AD OGGI, CHE SIAMO IN GUERRA IN NOME DI UN ATLANTISMO, DI UNA NATO E DI UN EUROPEISMO UNITI SOLO NEL LIQUIDARE L’ITALIA, L’ITALIANITÀ E GLI ITALIANI?
BEN VENGA UN 25 APRILE DI RIFLESSIONE E DI RECUPER0 DI DIGNITÀ NAZIONALE NON OFFESI ANCORA DALLA SCELTA DI UN DI MAIO
– PROTETTO DA DRAGHI -COME RAPPRESENTANTE EUROPEO PER I RAPPORTI CON GLI EMIRATI.