Di Marco Andreini
Esistono due ambiti nei quali ognuno si sente legittimato a dire la sua, il primo è, ovviamente, il calcio. Tutti vorrebbero essere allenatori della Nazionale. Il secondo ambito sul quale tutti, ma proprio tutti, si sentono super esperti è il lavoro.
Ci sono quelli, che definisco i costituzionalisti, recitano a comandamento il primo articolo della costituzione, pretendendo che lo Stato gli dia un lavoro. Ci sono quelli che ti spiegano che siamo il paese più povero d’Europa e questi ultimi li definisco i marziani.
Ci sono quelli che, non sapendo neanche come si legge una busta paga, fanno i saputelli. Ci sono quelli che, non sapendo neanche cosa sia il sindacato, ti spiegano come conquistare il consenso fra gli operai. Poi ci sono quelli come i miei ex colleghi che vanno in TV a gridare che i salari sono bassi. Questi, per la storia che mi contraddistingue, evito di dargli un nomignolo, sarebbe troppo dispregiativo.
Per i 15 anni in cui ho ricoperto il ruolo di responsabile nazionale del lavoro, ho cercato, molte volte ed inutilmente, di far capire al Psi che, per parlare di lavoro, bisogna conoscere la materia, la legislazione ma soprattutto bisogna avere un CV che rispecchi questo settore. Nella mia vita professionale ho fatto l’operaio in fabbrica, ho fatto il delegato di fabbrica, eletto a voto segreto dai lavoratori. Sono stato un dirigente sindacale nazionale che ha gestito trattative complesse con imprenditori quali fra i tanti, Marisa Bellisario, Fabiano Fabiani, De benedetti e sono stato tra i primissimi a lavorare nel settore interinale, fino a ricoprire la carica di Amministratore delegato di una agenzia per il lavoro. Ciò mi legittima ad indignarm,i ogni qual volta, sento castronerie.
Iniziamo dai costituzionalisti, quelli dell’art. 1 della carta. I padri costituenti hanno scritto quell’articolo ma avevamo ben chiaro che, in un sistema economico di mercato capitalistico, come in tutto l’occidente, non spetta allo stato garantire un lavoro e va detto che prima del governo Conte 1 e 2, questa questione era chiara a tutti, sindacato compreso. La legislazione nata con il COVID e dalle folli idee di Grillo, basate sulla decrescita felice, ha prefigurato un paese che si stava lentamente incamminando, economicamente, verso un sistema di assistenzialismo e di aiuti di stato.
Sono tanti i danni causati dalla gestione Conte ma quello sul lavoro, sul piano culturale, ha sovvertito 50 anni di grandi conquiste sociali. Si è voluto dipingere un paese che nella realtà non esiste.
Il RDC va contestualizzato come un momento politicamente necessario per salire sul balcone a dire di aver sconfitto la povertà.
In sintesi, non succederà nulla, quando non ci sarà più il Rdc, perché non è affatto vero che prima non esisteva nulla. E’ una bugia paragonabile alle favole che si raccontano ai bambini. Esisteva ed esiste la Naspi per chi perde un lavoro che è ben più alta del RDC. Esisteva il Rei ed, è bene specificare che, il Rdc può arrivare ad un massimo di 580 euro a cui si aggiungono solo i costi per l’ affitto, pari 280 euro. Una legge scritta con i piedi, in sostanza, perché non fa riferimento alla condizione economica vigente del beneficiario ma a quella del biennio precedente, non considerando che più il nucleo familiare è grande, più il RdC decresce. Consideriamo, inoltre, che nel calcolo del sussidio viene detratto ogni forma di trattamento assistenziale e previdenziale, tant’ è che tutte le associazioni degli invalidi erano indignate con il ministro Orlando che aveva permesso all’ Inps di tagliare il Rdc agli invalidi totali. Esperienza provata personalmente.
Aggiungerei un quesito: che paese è quello che paga gli invalidi per non lavorare? Esiste una legge che obbliga le aziende pubbliche e private ad assumere una percentuale di invalidi, che sono lavoratori con identici diritti di tutti gli altri.
Sono cresciuto con lo slogan: la scala mobile non si tocca, per arrivare ad oggi e sentire che il Rdc non si tocca.
Solo una sinistra incapace di ragionare può attaccarsi a questo ennesimo slogan.
Basterebbe un tavolo di concertazione tra ministero, Confindustria, sindacati ed associazioni di categoria per cambiare un sistema di vita basato solo sul tempo di lavoro ad un sistema nel quale lo Stato ti mette nella condizione di attuare la flexsecurity, cioè di investire sulla formazione ed aumentare le conoscenze professionali al fine del reinserimento nel mondo del lavoro.
Un tempo suddiviso tra lavoro e formazione, con il fine ultimo di non creare gap occupazionali.
Ciò costerebbe molto meno che i 9 miliardi annui del RDC, ma è più facile gridare che il Rdc non si tocca.
Certamente, caro direttore, questo è un sistema che presuppone che ogni attore reciti la propria parte. Che il sindacato si occupi di contratti, che è la mission per la quale è retribuito. Che gli imprenditori considerino i lavoratori come il loro più grande asset. Che tutto il sistema della formazione si orienti alla collocazione nel mercato dei partecipanti ai corsi e non come accade oggi, alla mera sussistenza dei centri che vivono di sussidi. E se mi è consentita l’ultima riflessione, che la politica non si permetta mai di cancellare quel sistema di valori che tanti servitori dello stato riformisti come Tarantelli, D’Antona, Biagi ci hanno tramandato e che solo una cultura nostalgica massimalista perdente, vuole avere il lusso di cancellare.
1 commento
Ottimo articolo, bello leggere chi è competente e scrive quel che sa. grazie.