Di Paolo degli Orti
Istanbul, 19 gennaio 2007: tre proiettili sparati alla nuca uccidono Fırat Hrant Dink scrittore e giornalista turco d’origine armena un armeno di Turchia vicino alla sede di Agos il suo giornale bilingue turco/armeno. L’assassino è un intransigente nazionalista turco, minorenne.
Alla cerimonia funebre di Dink, la moglie Rakel grida: ”Fratelli miei, non si può arrivare a nulla senza interrogare la tenebra che crea un assassino in un bambino”.
Questo fatto e queste parole già mostrano la tragedia che tormenta Armeni e Turchi da più di un secolo, perché non si può dimenticare la storia e non si può nemmeno alterarla.
Costantinopoli, sabato 24 aprile 1915: il Grande Crimine iniziò all’alba con l’arresto di notabili armeni: intellettuali, giornalisti, scrittori, poeti e qualche deputato al Parlamento, circa duecento persone.
Nel primo mese già più di mille persone erano state portate all’interno dell’Anatolia e uccise. L’avvio della Prima guerra mondiale, nel 1914, stava facendo da efficace schermo per lo sterminio.
Poteva sembrare una deportazione provvisoria per allontanare i civili armeni dai fronti di guerra e reinserirli in altre terre. Infatti, i documenti ufficiali presentano la deportazione come un’operazione ordinaria e legittima di trasferimento.
Ma dopo tre mesi, alla fine di luglio 1915, già più di un milione di armeni era scomparso e tutti i loro beni erano stati confiscati. Deportazione voleva dire sterminio, oltre che per mano dei soldati turchi e delle loro baionette, spesso anche per fame e sete durante marce interminabili senza una meta vera.
Come è stato scritto, “Nessuno stato è più crudele di un grande impero in agonia” Mutafian (2015).
Le persecuzioni contro la popolazione armena erano iniziate già negli anni 1894-1896 e le vittime di questi primi massacri furono stimate tra le due e le trecentomila. Dei due milioni di armeni presenti in Anatolia nel 1914, sopravvive oggi una minoranza, di circa cinquantamila persone, concentrata a Istanbul.
Molti documenti presenti negli archivi ottomani provano la volontà governativa di dare, sin dall’inizio, una diversa narrazione dei fatti per negare il massacro di civili trasformando la realtà storica in una interpretazione di parte armena.
I turchi si sarebbero dovuti difendere dagli attacchi armati degli armeni che collaboravano con le potenze occidentali per spartirsi i territori dell’Impero ottomano già in completo declino. “Durante tutto il processo genocidario vi fu un parallelo processo di costruzione di una verità che si fondasse su fatti falsi […]. Il negazionismo turco è stato caratterizzato dalla cancellazione delle prove concrete e materiali della vera realtà” Akçam (2020).
In anni recenti sono stati decifrati e pubblicati in italiano i telegrammi con i dettagliati ordini impartiti agli organi politici locali, soprattutto da Talat Pasha, Ministro dell’Interno. Il meticoloso lavoro di raccolta e studio dei telegrammi cifrati “Killing Order”, definiti dallo stesso storico la pistola fumante.
Tra le ricerche sul genocidio, costituisce oggi la “tardiva ma scintillante vittoria della verità” Akçam (2020). La ricerca sui documenti ha dimostrato che i vertici politici ebbero una intenzionale politica di annientamento della popolazione armena.
Documento del 22 ottobre 1915: “I diritti di tutti gli armeni su suolo turco, come il diritto alla vita e al lavoro, sono stati soppressi, e nessuno deve essere risparmiato, nemmeno l’infante nella culla. […]. Al popolo, che a tale riguardo non capirà mai la politica generale del governo, deve essere assolutamente impedito di proteggere queste persone o di salvare le loro vite”.
Documento del 24 dicembre 1915: “Ci è stato riferito che alcuni giornalisti armeni si sono recati in quelle zone, fotografando e raccogliendo la documentazione di una serie di calamità in corso. Per poi consegnarla al consolato americano locale. Persone dannose come queste devono essere arrestate e uccise”.
Infatti, i cadaveri ammucchiati sulle strade o parzialmente sepolti erano oggetto di molte fotografie che arrivavano alla stampa occidentale. Inoltre, “non erano solamente i campi aperti e gli spazi attorno alle strade a essere pieni di cadaveri. Altrettanto i corsi d’acqua della regione, primo tra tutti il Tigri” Akçam (2020).
Documento dell’11 gennaio 1916. “La forza e la determinazione che mostrerai nelle deportazioni garantiranno la realizzazione degli obiettivi. Soltanto fai attenzione a non lasciare corpi sulle strade o in aree aperte. Non affannarti nel reperire mezzi di trasporto: possono andare a piedi. La tabella che elenca settimanalmente i morti non è soddisfacente. Se ne evince che queste persone vivono lì abbastanza comodamente. Le deportazioni non sono la partenza per un viaggio. Nessuna considerazione o importanza dovrebbe essere data a lamentele e pianti di agonia e disperazione” Akçam (2020).
In altri telegrammi ministeriali vi sono gli ordini di punire chi non esegue gli ordini o chi, tra i musulmani, nasconde e protegge gli armeni.
Nel territorio dell’Armenia storica (la parte orientale dell’Anatolia) “case, scuole, botteghe, ponti, fortezze, fabbriche, monumenti, chiese e croci di pietra sono state dovunque abbattute, cancellate, riconvertite, dissolte. E così sono stati cambiati i nomi dei luoghi. … La maggior parte dell’Armenia storica è ormai perduta per sempre” Ferrari (2019).
Alcuni numeri freddamente ci indicano cosa significhi la distruzione materiale di una civiltà. Alla vigilia della Prima guerra mondiale all’interno dell’Impero ottomano erano presenti: 2.538 chiese, 451 monasteri e 1.996 scuole; oggi in Turchia, escludendo Istanbul, esistono sei chiese armene in funzione, nessun monastero e nessuna scuola.
La distruzione del patrimonio monumentale armeno in Turchia fu quasi completa. Questo è propriamente il genocidio culturale, cioè l’eliminazione accurata di ogni traccia dell’esistenza degli Armeni e della loro antichissima civiltà presente nei territori anatolici.
Tra gli anni 1919 e 1922 vi furono processi contro alcuni responsabili dei massacri degli armeni ma i verdetti di condanna vennero poi annullati e nessun colpevole fu estradato dalla Germania ove molti si erano rifugiati. Gli atti dei processi e le testimonianze furono però molto utili per ricostruire l’intero dramma armeno, nonostante la programmata distruzione di molti documenti ufficiali ottomani. Vi erano state, infatti, precise istruzioni di “dare fuoco a tutte le carte contenenti ordini riguardanti gli armeni” Akçam (2020).
L’ideologia nota come panturchismo animava i piani contro le minoranze ed aveva l’obiettivo di formare una forte identità nazionale riunendo tutti i turchi in uno stato omogeneo al posto dell’unione di popoli diversi quale fu l’impero ottomano. La tesi storica ufficiale, addirittura, indica i turchi come gli abitanti indigeni dell’Anatolia divulgando l’idea che non ci sarebbero mai stati territori abitati da armeni né tanto meno una regione denominata Armenia.
Va ricordato, piuttosto, Immanuel Kant che nella sua Antropologia pragmatica del 1798 tratteggia gli Armeni così: “Questo popolo intelligente e laborioso ha rappresentanti in tutto l’antico continente e le relazioni che ha stabilito con tutti i popoli offrono una sorprendente similitudine con alcuni tra i migliori aspetti del carattere greco”.
Gli armeni cristiani avevano convissuto con l’Islam e con i turchi per secoli in un impero multietnico e multireligioso insieme con slavi, greci, siriani armeni, curdi, arabi, ed era proprio il carattere multinazionale dell’impero Ottomano che sfavoriva l’identità nazionale turca.
Alla fine della Grande Guerra una piccola Repubblica d’Armenia si era costituita nella parte orientale del dissolto Impero Ottomano ma l’esercito turco, nel settembre 1920, ne massacrò la popolazione. Questa Repubblica entrò a far parte dell’URSS fino all’indipendenza nel 1991.
Oggi la Repubblica di Armenia ha quasi quattro milioni di abitanti, ma sono circa otto milioni i discendenti armeni sparsi nel mondo. La tragedia è diventata un perenne trauma con lo sradicamento dei sopravvissuti e dei loro eredi dalla patria ancestrale. “Il processo di rimozione e/o falsificazione è stato particolarmente forte nei confronti degli Armeni, per quel che riguarda non solo l’evento decisivo del genocidio, ma anche la loro stessa esistenza storica” Ferrari (2019). Gli armeni parlano con struggente malinconia del loro Paradiso Perduto. Ed il richiamo biblico è forte perché il Monte Ararat, ora in Turchia, è il leggendario Monte dell’Arca di Noè.
Della loro millenaria presenza nel territorio anatolico restano solo grandi spazi di rovine monumentali in cui alcune croci di pietra, caratteristiche dell’arte sacra armena, sono testimoni di un popolo ora assente. Il ritorno nella originaria patria per gli Armeni diventa soprattutto un difficile viaggio in una memoria da ri-costruire. In alcuni luoghi più che in altri “il vuoto lasciato dallo sterminio e dall’espulsione degli Armeni si percepisce con un’intensità devastante”. “Presto non ci sarà più alcuna prova del fatto che gli Armeni abbiano mai vissuto in Turchia. Saremo diventati un mito storico” Ferrari (2019).
Il neologismo “genocidio” è di uso comune per indicare la distruzione di intere comunità umane. Gli armeni, invece, indicano la loro tragedia con altre espressioni: il Grande Crimine, il Grande Disastro, la Catastrofe. Si trattò del primo caso di pianificazione dello sterminio di un popolo, tanto da essere considerato, dagli storici, il prototipo dei successivi stermini di popolazioni umane. “Ha anticipato metodi e meccanismi mentali dei grandi totalitarismi successivi” Akçam (2005).
Si può notare che tutti i regimi totalitari si fondano sul primato della menzogna e che solo una ideologia totalitaria può concepire uno sterminio sistematico di esseri umani. Il caso armeno, però, è quello in cui si è voluto sin dall’inizio negare e falsificare i fatti storici: “La negazione del Genocidio Armeno non ebbe inizio dopo i massacri, ma fu parte integrante del piano genocidario” Akçam (2020).
Il genocidio degli Armeni fu rimosso dalla storia e in quasi tutti i libri turchi, a proposito della questione armena, “si legge che le vittime dei massacri non furono gli armeni ma i turchi” Akçam (2005). Vi è una “profonda irrealtà della storia ufficiale, lo Stato repubblicano, con la sua concezione della storia, era deciso a farci vivere nella menzogna” Cemal (2012).
La Repubblica, molto più piccola del Sublime Stato Ottomano, era bisognosa di una forte identità nazionale che si doveva fondare sull’egemonia turca. “L’identità nazionale turca si sviluppò insieme alla paura di essere cancellati” Akçam (2005). I vari governi turchi hanno continuato a dare una propria versione di storia che ha confuso fatti storici e interpretazioni. Ed il massacro degli armeni oggi è ancora il tabù dei tabù.
Riconoscerlo ufficialmente significherebbe mettere in discussione l’intera storiografia turca e gli anni della difficile transizione/continuità dall’Impero ottomano alla Repubblica e, pertanto, anche il nesso esistente tra il genocidio e tre regimi politici turchi. La tragedia iniziò negli ultimi anni dell’Impero ottomano, divenne spietata nel 1915 con la dittatura dei cosiddetti “Giovani Turchi” e proseguì come mistificazione nel 1923 con la Repubblica di Ataturk “padre turco”, costituita in parte da membri burocratico-militari responsabili dei massacri del 1915.
Non si possono trascurare anche le implicazioni legali che potrebbero sorgere dopo un ufficiale riconoscimento del genocidio, come, ad esempio, le richieste di risarcimento in relazione agli enormi beni armeni confiscati o distrutti, oltre che il danno, forse irrimediabile, alla credibilità di uno Stato che da più di un secolo nega un fatto storico.
La politica di stato di negazione del massacro degli armeni comporta che si possa condannare come “insulto all’identità turca” chi definisce gli avvenimenti del 1915 un genocidio. Con questo tipo di accuse Hrant Dink che continuava con fiducia il dialogo armeno-turco, venne condannato a sei mesi dalla magistratura turca. Aveva scritto nel giornale Agos frasi ritenute oltraggiose per l’identità turca. Nel 2002 aveva affermato: “io non sono turco, sono armeno di Turchia”, queste parole furono la causa del primo processo.
La disinformazione successiva segnò l’avvio della persecuzione morale dello scrittore. Egli divenne noto come nemico dei turchi e fu bersaglio della loro rabbia e del loro odio. Alcune parole del suo ultimo scritto rivelano la paura e l’ultima sua illusione: “Il 2007 sarà probabilmente un anno ancora più difficile. Continueranno i processi, e ne inizieranno di nuovi. Chissà con quali altre ingiustizie dovrò confrontarmi? Sì, posso vedere me stesso nell’inquietudine psicologica di una colomba. La mia testa è agitata come la sua … E rapida al punto da girarsi in un attimo. Ma so che in questo paese gli uomini non toccano le colombe”! Dink (2008).
Invece, quella colomba fu abbattuta.
La Camera dei Deputati della Repubblica Italiana il 10 aprile 2019 approvò una mozione per impegnare il Governo italiano a “riconoscere ufficialmente il genocidio armeno e a darne risonanza internazionale”. Questa mozione fu fatta propria anche da molte Amministrazioni cittadine. Vi è tuttora una necessità morale e politica di riconoscere il genocidio armeno per contribuire a portare luce su quella tenebra di ignoranza e di paura che tuttora crea assassini. Conoscere la verità è un momento obbligato per sperare in una concordia futura. Affinché il turco non veda nell’armeno
il traditore del 1915 e l’armeno non veda nel turco l’assassino della sua gente. Dink nel 2004 sintetizzò il dramma irrisolto così: “Entrambi rappresentano casi clinici: gli armeni hanno i loro traumi, i turchi le loro paranoie” Dink (2008).
Anche se la storia, forse, non insegna nulla, il presente rimane incomprensibile senza di essa perché è come se nel presente si concentrasse, ogni volta, anche l’intero passato.
2 commenti
Non uccidere, perché è tanto difficile!
È onere di tutti i democratici ricordare il genocidio armeno, poiché l’ oblio sarebbe un ulteriore tragedia