di Alessandro Perelli.
È più di dieci anni che l’ex Sindaco di Istambul, Recep Erdogan, domina la scena politica della Turchia; prima come Primo Ministro e, dal 2014, come Presidente della Repubblica. Il leader indiscusso del Akp, partito della giustizia e dello sviluppo, in questi anni ne ha viste di tutti i colori sia dal punto di vista interno, sia sul fronte internazionale: tentativi di colpi di stato (spesso ingigantiti per giustificare azioni di repressione del dissenso), violazioni dei più elementari diritti democratici mediante l’incarcerazione degli oppositori e la privazione della libertà per i cittadini a lui non allineati; persecuzione della minoranza curda, accusata di attentato all’ integrità nazionale, adesione alla Nato e processo di entrata nell’ Unione Europea ma, al tempo stesso, corridoio preferenziale con Mosca, come si è visto nel blocco a Svezia e Finlandia, circa l’ingresso nell’ Alleanza Atlantica.
A ciò si aggiunga il ricatto all’Europa per bloccare il flusso dei migranti clandestini in cambio di cospicui finanziamenti e l’occupazione strategica di vaste aree del Mediterraneo, per lo sfruttamento energetico ai danni di Paesi aderenti all’Unione Europea come la Grecia, con la complicità del Governo libico di Dabaiba. Non è da dimenticare il decisivo intervento a favore dei musulmani azeri, nel conflitto con l’ Armeria per il controllo del Nagorno Karabakh. Questi sono solo alcuni degli interventi turchi, sufficienti però a comprovare un attivismo a tutto campo.
Il prossimo 14 maggio, le elezioni presidenziali avrebbero dovuto fungere da cartina di tornasole, per verificare se la popolarità di Recep Erdogan sarebbe stata riconfermata dal voto dei turchi. Il devastante terremoto che il 7 febbraio ha colpito una notevole area del territorio, coinvolgendo una numerosa parte della popolazione e provocando finora oltre 40.000 vittime, decine di migliaia di feriti, un ingente numero di dispersi e danni ingentissimi, rischia di incidere pesantemente anche sulla situazione politica e, ovviamente, sulla campagna elettorale già in atto.
Erdogan ha tempestivamente decretato 90 giorni di stato di emergenza (condizione che permette al Governo di adottare provvedimenti straordinari senza l’avallo parlamentare), ha ammesso il ritardo nei soccorsi, ha già fatto arrestare più di cento costruttori, rei di una cementificazione incontrollata e di gravi carenze nelle costruzioni degli edifici, assolutamente inadeguati dal punto di vista delle garanzie di resistenza a eventi sismici, ha promesso la ricostruzione entro un anno (con un’enfasi decisamente esagerata, visto le enormi dimensioni della tragedia).
Le ripercussioni negative sui cittadini turchi, sia quelli colpiti dal terremoto, sia quelli indirettamente coinvolti avendo assistito all’immane sisma, potrebbero nel voto di maggio fare cadere la stella del Presidente turco. “Potrebbero”, perché già si parla di un possibile rinvio della data delle elezioni e di un prolungamento dello stato di emergenza. Del resto, la situazione economica del Paese già di per sé preoccupante, è destinata a peggiorare ulteriormente per il terremoto. Con città e paesi devastati, la ricostruzione richiederà miliardi di dollari . Il sisma rischia di bloccare diversi progetti di Ankara in Asia e in Africa, ponendo un freno all’ambiziosa agenda di politica estera di Erdogan.
E’ noto che proprio l’attività internazionale del Presidente turco, veniva utilizzata dallo stesso per convincere gli elettori della bontà dei suoi programmi. Concentrarsi sul fronte interno significherebbe per lui rinunciare a un elemento fondamentale della sua campagna elettorale e della sua credibilità. L’opposizione politica potrebbe poi sfruttare il malcontento dei turchi per le inadempienze dei soccorsi e per i ritardi (spesso inevitabili), che si dovessero verificare nella ricostruzione. Lo stesso stato di emergenza, in questo senso, potrebbe costituire un’ arma a doppio taglio per Recep Erdogan.