di Alessandro Palumbo
Ero un bambino di pochi anni quando mio nonno, minatore comunista, mi portava con se alla festa del primo maggio, orgoglioso col suo garofano rosso all’occhiello, simbolo dei lavoratori, mi portava a vedere la sfilata dei trattori dei contadini, degli operai con le bandiere e poi nel Parco a bere con lui. Mi chiedevo perché se è un giorno di festa tutti alla fine lavorano anziché riposare. Avrei capito poi quel senso di appartenenza, quella fraternità che nasceva dal sentirsi vicini nei problemi e nelle lotte. Molti anni sono passati e quel senso quasi sacrale di festeggiare il lavoro ormai si è perso. Il primo maggio ormai è solo uno dei tanti ponti da vivere in vacanza, al massimo è il concertone del primo maggio. Il lavoro è uscito dalla mente dei giovani, la parcellizazione, la deindustrializzazione, le nuove fatiche della vita, a volte la consapevolezza della inutilità hanno reso il primo maggio una festa lontana, peggio ancora una festa retorica. D’altra parte il lavoro non è più centrale neanche nella agenda politica, negli anni del centrosinistra il lavoro era centrale, lo Statuto dei lavoratori, la politica industriale, l’intervento statale nella grande industria, la programmazione industriale, la Cassa del Mezzogiorno, con tutti i loro limiti avevano il pregio di porre il lavoro e le condizioni dei lavoratori al centro della riflessione politica e culturale. In anni recenti i diritti sociali e il lavoro hanno lasciato il posto ai diritti civili, una volta tallone di Achille delle forze di sinistra, sicuramente una conquista importante anche culturale, ma con il grave limite di aver lasciato non presidiata l’area della tutela sociale. Per di più le forze politiche anche quando parlano di lavoro si muovono con operazioni di piccolo cabotaggio, ‘ultima operazione di respiro furono le intuizioni di Biagi, ucciso dalle BR, trasferite poi in legge. Dopo di allora interventi nominalmente pomposi ma di scarsa incisività: jobs act, decreto dignità, il reddito di cittadinanza con la sua abolizione della povertà. La classe politica non ha percepito la profonda rivoluzione che sta portando l’intelligenza artificiale e l’algoritmo nel mondo del lavoro. Se ne parla in convegni o in sede accademica, ma assenti dal dibattito politico. Stephen Hawkins ha detto “l’intelligenza artificiale costituisce una grande opportunità, ma anche un grande rischio” Opportunità nella medicina, nell’ingegneria genetica,nei calcoli, ma si syta andando verso un mondo del lavoro sempre più sofisticato dove la presenza umana guiderà il processo, ma sarà necessario costruire iperspecializzazioni, robot lavoreranno per noi, ma avranno bisogno di personale superspecializzato e dove cresce la tecnologie deve crescere anche l’etica, perché la crescita non può essere lasciata ad algoritmi anonimi.
Ci sarà una profonda modifica dei luoghi di lavoro con una implementazione del lavoro da distanza.
Rischiamo di perdere privacy, senso della responsabilità, fantasia nel lavoro.
Questa iperspecializzazione renderà sempre più evidente la divaricazione salariale tra gli “innovatori” e il resto dei lavoratori.
Inoltre il rischio è di perdere posti di lavoro, in questo senso i dati OCSE sono significativi e questo sarà drammatico in un Paese come il nostro che ha il 30% di disoccupazione giovanile.
Sara ineludibile porsi il problema della riduzione dell’orario di lavoro, della rimodulazione degli orari stessi e in questo contesto si pone il problema del reddito di cittadinanza.
Questo tema sarà poi drammatico per le regioni del sud, con i giovani con specializzazioni acquisite nelle università del nord resteranno per il lavoro depauperando il sud di quelle intelligenze in dispensabili per creare una classe dirigente. Il sud rischia di trovarsi con una forza lavoro poco specializzata e fuori dal nuovo mercato del lavoro, senza contare che gia si intravede un identico flusso dalle regioni del nord Italia verso l’Europa e il resto del mondo Occidentale.
A questo si aggiunge la ricerca da parte dei giovani della ricerca di una migliore qualità della vita, che le nostre grandi città non sanno più offrire.
La politica dovrebbe coinvolgere la classe dirigente, le università , i centri di formazione, le forze civiche in uno sforzo, anche di fantasia per produrre un quadro di sviluppo e normativo per gestire questo processo per ridare un senso alla festa del lavoro e per evitare che questo processo sua gestito da chi pensa all’innovazione solo a un modo per accrescere la ricchezza dei pochi.
1 commento
Molto condivisibile, soprattutto la parte su diritti e tutele sociali; molte persone non si rendono neanche conto di quanto, ad esempio sanità,scuola, stato sociale, siano state letteralmente falcidiate negli ultimi venti-trent’anni, salvo poi lamentarsi che la “cosa pubblica” non funziona e che se vuoi qualcosa devi pagare. Non è stato voluto tutto questo?.. E l’ha fatto, ahime, anche la “sinistra”. Approfitto, parlando di cosa pubblica: davvero le amministrzioni provinciali andavano abolite (così vicine, più di quanto si pensi, a noi cittadini dell’entroterra di provincia, appunto)?.. cosa ne pensa l’Associazione Socialista Liberale? Grazie, con stima Alessandro Bravi, operaio.. socialista!