È finita.
No, no, non vi allarmate! Non è l’ultima spiaggia di una tragedia.
Ho usato il femminile perché mi riferisco alla “serie A”, anche se sarebbe stato più corretto scrivere: “è finito il campionato di serie A” ma indurvi, anche se per solo un attimo, in confusione mi è sembrato uno scherzetto carino, da Halloween, per intenderci.
Comunque ieri si è conclusa la grande kermesse pedatoria che, ogni anno, ci accompagna per quasi undici mesi.
Vi confesso che anche io sono un po’ smarrito perché il “e ora che cacchio faccio durante i week end?” è una domanda, credo abbastanza diffusa, che mi pongo con la piena consapevolezza della portata psichica che graverà su di me nelle prossime settimane.
Ma poi penso che se questo cacchio di Giove Pluvio ci desse una mano, potrebbe cominciare l’estate e la possibilità che possa divenire realtà il miraggio di spiagge, sole e mare e soprattutto di una approfondita analisi delle nuove mode dei bikini, mi consola.
Noblesse oblige.
Comunque è finita.
Finisce con un inizio e cioè quello del mese di festeggiamenti sotto le pendici del Vesuvio per celebrare lo scudetto azzurro. Una marcia trionfale inarrestabile, quella del Napoli, che legittima ogni soddisfazione anche se la portata del trionfo rischia di essere molto offuscata dalla ipotetica (sic!) vittoria nerazzurra della Champions.
Non so se sia più difficile vincere la Coppa dei Campioni (come la chiamavo da ragazzino) o lo scudetto ma sicuramente il trionfo europeo è molto più prestigioso.
È stato un torneo strano macchiato da due anomalie che in qualche modo ne hanno falsato l’andamento. L’una è stata quella innaturale sosta di due mesi, quasi a metà campionato, per la celebrazione dei mondiali del Quatar. Che poi non ho capito perché in un paese dove c’è sempre il sole e la temperatura è sempre a 40 gradi (beati loro) bisognava fare i mondiali a novembre, roba che mi hanno rovinato pure il compleanno.
L’altra è legata alla vicenda Juve.
Non sono juventino ma sul punto due considerazioni vanno fatte.
La prima è che non si possono fare balletti in campionato in corso, con penalizzazioni e contro penalizzazioni che non ti fanno mai capire qual è la vera classifica.
Ma anche i giocatori, che in fondo sono sempre dei ragazzi di venticinque anni, per quanti soldi prendano, avranno pure il diritto di sapere, a ogni partita, per quale traguardo stanno competendo.
Il mio concittadino, Gabriele Gravina, se volesse fare una cosa davvero seria, dovrebbe riordinare le cronologie della giustizia sportiva e disporre che i processi si facciano a fine campionato.
E se vogliono concludere i procedimenti in tempi utili, per evitare il sovrapporsi all’avvio dei nuovi tornei, riducessero i tempi di deposito delle sentenze e di proposizione degli appelli. Tanto tra avvocati e giudici, con quello che sono pagati, una sudata tra giugno e luglio val pure la pena farla. Io per esempio mi ci fioccherei.
La seconda è che non ho capito perché paga sempre e solo la Juve quando ci sono squadre, di cui sono noti comportamenti simili se non uguali, che però al dunque scivolano sempre via tra la distrazione dei procuratori federali.
Niente, niente, perché hanno come tifoso il segretario nazionale del partito di via Santa Caterina da Siena? Hai visto mai? Una inattesa iniezione di potere ogni tanto fa bene. Ma forse sarà merito più di La Russa, magari aiutato da Bonolis.
Resta il fatto che tra una cosa è l’altra, se non ci fossero state, non sono del tutto certo che i risultati sarebbero stati gli stessi, se non per il Napoli almeno per quanto riguarda altre squadre.
Non è stata solo la fine del campionato. Altre storie finiscono. Una è quella di Spalletti, (e di Giuntoli) diventando il Napoli la prima squadra al mondo che, all’indomani di una strepitosa vittoria di un campionato, cambia allenatore e direttore sportivo. Che tanto alla storia dell’anno sabbatico non ci ha creduto nessuno. Ma che fosse da cambiare il Presidente? Hai visto mai.
Tra tante altre storie che profumano di capolinea, tra rumors e pettegolezzi, ce n’è un’altra certa e annunciata.
Quella di Zlatan.
Il campione svedese, come sempre, ha sorpreso tutti, pure moglie e figli. E non solo per la portata dell’annuncio.
Abituati a vederlo e sentirlo così sicuro di sé, ai limiti dell’arroganza, fiero vikingo intento, sulla prua della sua nave, a scrutare i tempestosi orizzonti del Mar del Nord, hanno colpito forse più quelle lacrime malcelate che gli hanno bagnato gli occhi dall’inizio della partita sino alla cerimonia di addio e che ci hanno improvvisamente svelato che il terribile gigante ha un cuore che pulsa sotto la corazza, che il suo addio al pallone.
“Dico ciao al calcio, ma non a voi. Sarò milanista per sempre” ha detto Ibra emozionato al centro di uno stadio che era rimasto stracolmo per salutarlo, accompagnato, nel pianto, da quello dei tifosi a quello dei compagni di squadra.
Non è tanto l’addio al calcio giocato che sorprende. È un uomo intelligente e certamente in questi giorni, pur non dicendo nulla a nessuno, avrà monitorato il suo fisico e si sarà reso conto di quali sarebbero potute essere le sue improbabili possibilità da giocatore.
Zlatan era stato soprannominato lo “zingaro” per il suo peregrinare tra una miriade di squadre dando la sensazione che il motore delle sue scelte fossero i soldi e non l’attaccamento alla maglia, a nessuna di quelle che aveva rivestito.
E invece già tre anni fa, scegliendo di legarsi al Milan, si percepì che non era una decisione economica, ma di cuore, forse di sfida per misurarsi nella ennesima delle sue imprese impossibili, quella di prendere per mano un manipolo di ragazzini e portali alla vittoria. E ieri è stato palpabile che forse, a età matura, il feroce gigante svedese ha permesso che anche sulla roccia del suo cuore spuntasse un fiore. Quel “sarò sempre con voi” non sembrava né una boutade né una frase fatta ma la promessa solenne alla squadra ed ai tifosi che lo hanno amato di più.
Una promessa firmata con le lacrime.