di Lucia Abbatantuono.
Vera Politkovskaja ha i capelli argento, la pelle diafana e i toni pacati. Sembra una specchiera rotta, i cui cocci possono uccidere, se usati con mano abile. Porta il suo dolore in giro per il mondo, e lo svela con parole che le escono quasi timide e centellinate, ma affilate e limpide. Parole che fanno tremare le coscienze. Stavolta è toccato al pubblico torinese ascoltarle.
“Il 7 ottobre del 2006 era un giorno come tanti, io ero incinta e per questo vivevo a casa di mia madre” – racconta Vera – “Dopo colazione siamo uscite, ciascuna per propri impegni da sbrigare. Nelle ore successive l’ho chiamata spesso a telefono finché non ha risposto più, allora ho avvisato mio fratello, e lui è andato subito a cercarla a casa. Poco dopo mi ha richiamata per dirmi dell’accaduto. Da allora tutto è cambiato: siamo stati coinvolti nelle indagini, poi ci siamo impegnati a mantenere viva la memoria di mia madre, e a cercare la verità. In questo compito, l’Italia gioca un ruolo unico perché nessun altro paese sostiene il ricordo di Anna Politkovskaja come fanno gli italiani“.
Il 7 ottobre del 2006 era il compleanno di Vladimir Putin, e ancora oggi qualcuno sostiene che l’assassinio della Politkovskaja sia stato una sorta di regalo di compleanno per lo zar. “Mia madre non era una persona facile. Non parlava tanto e non scendeva a compromessi. Era spesso polemica, non dormiva quasi mai e passava la notte a scrivere i suoi articoli, perché per lei il giornalismo era una missione civile. L‘unica cosa che contava era la verità“.
Non c’è traccia di commozione negli occhi azzurri di Vera, quando ricorda il carattere di sua madre e continua: “Già da ragazzina, a scuola, combatteva contro gli altri studenti e anche contro i docenti per le ingiustizie quotidiane, e questo suo carattere si è espresso anche nel lavoro: era scomoda perfino nei giornali per i quali lavorava, e discuteva spesso perfino con i redattori capo“.
Una giornalista che ben prima di molti suoi colleghi aveva presagito cosa sarebbe diventata la Russia: “Raccontava la guerra in Cecenia, ma raccontava anche la vita normale dei russi, come nelle indagini svolte nei centri di addestramento militare, dove i giovani erano ammaestrati come killer all’ordine di comandanti dittatori, o come nelle tante inchieste che svelavano la spaventosa e corrotta burocrazia dello Stato“.
Quando le chiedono se Anna si fosse mai resa conto di quanto in pericolo fosse la sua vita, Vera non esita: “Si, lo sapeva bene. E ironizzando sulla situazione preparava me e mio fratello all’eventualità. Ha subito molte e costanti minacce, ne era consapevole e comunque cercava di rassicurarci. Nelle settimane prima della sua morte ci aveva anche segnalato di movimenti strani nel cortile di casa, di persone che si appostavano a orari fissi, e che si muovevano nell’ombra, ma questo lo raccontava solo per mettere in guardia noi“.
Ma come era la vita in Russia prima di Putin? Vera ce lo racconta: “Putin arrivò al potere quando io ero già ventenne, ma attraverso il lavoro di mia madre ero già abituata a notare le cose che cambiavano: dal 2000 (ascesa di Putin) al 2006 (assassinio di mia madre) il regime non era ancora così assetato di sangue come lo è oggi. Certo, il tipo di potere era già mutato, ma è tutto peggiorato dal 2006 in poi, con un crescendo costante di violenza materiale“.
Interrogata sul rapporto tra Anna e i colleghi giornalisti russi, Vera non indugia: “Il suo modo di fare giornalismo è morto con lei. Oggi è tutto inutile. In questi 17 anni non ho visto nessun altro giornalista russo lavorare come lei. Non abbiamo perso le speranze di scoprire prima o poi chi sia stato il mandante e l’esecutore materiale del suo omicidio, e vogliamo che i nostri sforzi però non siano del tutto vani. Ma il mondo del giornalismo russo non è al nostro fianco: i colleghi chiamavano mia madre – la pazza di Mosca –, non quelli della Nova Gazeta ma tutti gli altri che non capivano perché Anna si agitasse tanto (dicevano), perché non restasse ferma in redazione a scrivere invece di andare in guerra e nel centro del pericolo. A ragion veduta, tutto ciò che lei ha scritto da reporter in Cecenia dal 2009 in poi si sta ripetendo oggi in modo identico in Ucraina. E dobbiamo ricordare che nel 2004, sul volo per Beslan, fu avvelenata col polonio in una tazza di tè, tipico metodo russo, per evitare che potesse riportare le brutture di quel famigerato sequestro di bambini finito in strage“. Quando le chiedono perché lei abbia deciso di lasciare la Russia e vivere in un luogo segreto, Vera racconta: “Dal 24 febbraio 2022, appena esploso il caos in Ucraina, tutta la mia famiglia è stata considerata nemica del popolo russo. Persino mia figlia, che si chiama Anna come mia madre, è stata aspramente richiamata alla disciplina quando a scuola si è scagliata contro i compagni di classe per sostenere che non si tratta di un’operazione speciale per liberare gli ucraini ma di una vera e propria guerra, di un’aggressione contro uno Stato libero. Oggi è reato penale affermare concetti contrari alla dottrina zarista, quindi poche settimane dopo l’attacco all’Ucraina abbiamo lasciato la Russia. Hanno anche bruciato la nostra dacia: poche persone sapevano della nostra partenza, e saremmo stati in quella dacia per le feste del Maggio Russo se non fossimo scappati. Ci hanno raccontato che c’è stata un’esplosione, e anche i vigili del fuoco hanno confermato che si è trattato di un incendio doloso. Dunque, hanno voluto bruciarla sperando che fossimo dentro, così come ora cercano di cancellare sistematicamente la memoria di mia madre“.
Invitata a spiegare quali sono le limitazioni alla libertà di espressione applicate oggi in Russia, Vera non esita a dipingere il quadro reale e terrificante della situazione: “Oggi nessuno può dire ciò che vuole. Ci sono nuove leggi, pienamente integrate nel quadro normativo statale, che lo impediscono e lo puniscono. Nessuno può esprimere la propria libera opinione, tranne nelle cucine delle proprie case, ma solo dopo aver spento i cellulari – perché sono controllati anche quelli. Molti sono già in carcere per questo, e nessuno può parlare liberamente né in pubblico, né dal vivo e né sui social“.
Le domande si fanno più serrate, e la lucidità di Vera raggiunge toni di disarmante purezza. Come quando le chiedono cosa prova adesso nei confronti di Putin: “Non ho nessun sentimento nei riguardi di Putin: è il capo di un enorme stato che poteva essere splendido, ma lui l’ha distrutto“.
Quindi, le chiedono se Putin è un dittatore. Risponde, secca e lapidaria: “Si“.
Le chiedono poi se noi occidentali fossimo stati più attenti già da anni fa, magari avremmo potuto salvare Anna, così come avremmo potuto evitare la guerra in Ucraina. E Vera commenta, senza esitazioni: “Come ogni volta che troviamo per strada qualcuno che sta subendo violenza e sentiamo che sia giusto aiutarlo… se volgiamo lo sguardo altrove, allora chi siamo?“.
Le chiedono, poi, se pensa che Putin si fermerà. E lei confida: “Temo che la guerra durerà ancora molto: c’è una legge, appena normata, in base alla quale Putin può essere presidente fino al 2036. E lui lo sarà. Su un dittatore come lui nessuno può fare previsioni, ma credo che non si fermerà“.
Le domandano, infine, se tutto questo sia valso la pena: scappare dalla Russia, abbandonare casa e lavoro e affetti, vivere da fuggiaschi, viaggiare nei paesi liberi per divulgare l’accaduto, vivere con la scorta… E anche stavolta Vera è chirurgica ma profondamente umana: “No, non ne è valsa la pena. Ma non posso rispondere diversamente: la vita di mia madre vale più di ogni cosa al mondo“.
E cosa spera, oggi, Vera Politkovskaja per sua figlia? L’eco si espande nella sala commossa, e sa di tenerezza: “Spero solo che sia felice“.