Questa settimana, durante la consueta riunione del lunedì, il nostro direttore Mauro del Bue ha invitato tutta la redazione a una riflessione circa le allarmanti derive violente che si stanno verificando nelle nostre città. Ai numerosi episodi di pestaggi e brutalità che, di anno in anno, si registrano in costante aumento e che riguardano in maniera peculiare i giovani, quando non i giovanissimi -si veda la rissa di Vicenza o la bimba picchiata dalla gang di quindicenni di cui ho recentemente parlato (per leggere l’articolo cliccate qui)-, si vanno sviluppando atti di violenza che coinvolgono anche fasce più mature della popolazione.
Questo genere di manifestazione umana non è fenomeno sconosciuto al Paese, dove da anni si segnalano una serie di criticità che vanno dal fenomeno del bullismo e del cyberbullismo, a quello delle baby-gang, del revenge-porn, fino alle più recenti challenges. Ad attirare la nostra attenzione, alla luce dei fatti, è il ritorno della violenza che muove da argomentazioni e rivendicazioni di tipo politico che, va da sé, vede una cospicua rappresentanza di picchiatori e devastatori ultratrentenni.
Gli episodi scatenanti sono stati: il pestaggio, fuori ad una scuola superiore di Firenze, di alcuni ragazzi da parte di una banda che si dichiara “fascista”, a cui hanno fatto seguito le incommentabili immagini “a testa in giù” della premier Meloni e del ministro Valditara, esposte al liceo Carducci di Milano , e il “Caso Cospito” che ha portato i gruppi anarchici, dopo ripetute manifestazioni, a mettere a ferro e fuoco la città di Torino, riportando la memoria agli anni settanta; anni di crisi sociale, valoriale, segnata dall’austerity del governo Rumor e dal tramonto definitivo dei sogni di pace e amore universale, che avevano animato il decennio precedente.
A questo punto vi aspetterete una mia analisi del fenomeno: da dove arriva, chi lo anima, perché si anima, e tutta una serie di conclusioni e analisi, -mie e dunque personali- in perfetta linea con la tuttologia che pervade ognuno di noi. Certo, nessuno mi vieta di analizzare queste derive partendo da quello che, in questo dato momento, ho nella mia testa e ancor più nella mia pancia. Potrei ragionare sulla dannosità che consegue ad un’eccessiva fruizione di social-network; dell’agile diffusione, da parte degli stessi, di messaggi deviati e devianti, che allontanano l’individuo, prevalentemente di giovane età, dalla vita reale, dal dialogo e dal senso di comunità.
Arrogandomi capacità e conoscenze di psicologia e sociologia, andrei a evidenziare il paradosso che individua nei “giovani d’oggi” una spiccata propensione alla collettività e allo spirito del branco e, al contempo, un carattere iper-personalistico. Sono quei ragazzi che trovano divertente riprendere con lo smatphone stupri e pestaggi, che si sentono solidali solo con ciò che li riguarda in prima persona; talmente privi di empatia che i dolori e le sofferenze altrui sono vissute in modo analogo ad una proiezione cinematografica: si può commentare ma non intervenire.
Un film dove la scritta “The End” deve essere sostituita con la scritta “se l’è cercata”. Ma è davvero così? Avrebbe senso prendere una categoria ed etichettarla? Avrebbe senso prendere un problema, che sarebbe meglio indicare con il termine “fenomeno”, e considerarne solo alcuni aspetti?
Siamo la società delle certezze assolute, delle risposte immediate, delle analisi veloci e definitive. Snoccioliamo ogni nostra convinzione con arroganza e supponenza, senza prendere atto che, se il problema c’è, noi ne facciamo parte. Proviamo a fare un piccolo test a noi stessi: pensiamo alla nostra vita quotidiana e alla piccola parte di mondo con cui abbiamo un’interazione.
Quante persone conosciamo? Tra queste, riteniamo che nella maggior parte esse siano idiote, stupide, fastidiose, oppure intelligenti, anche più di noi? Ecco. Se la matematica non è un’opinione, noi rientriamo nella percentuale degli stupidi per qualcun altro. Possiamo qui individuare uno dei possibili motivi che ci portano a non badare all’opinione altrui come potenzialmente valida, o funzionale integrazione a un ragionamento. È la tendenza al non ritenere ragionevole, di “buon senso”, una posizione diversa, alternativa o avversa a quella da noi sostenuta.
Non si riesce a comprendere che coloro che non la pensano come noi, nella maggior parte dei casi, non sono né idioti né ignoranti: semplicemente percorrono vie diverse dalla nostra e non considerano gli stessi elementi che consideriamo noi.
Questa potrebbe essere una delle motivazioni che ci portano ad analizzare un problema tenendo conto di un unico aspetto. Questa tendenza determina la conseguente carenza di analisi globali dei fenomeni che vorremmo spiegare, o delle soluzioni che andiamo ad indicare. In questo modo ci troviamo spesso a vantare, con leggerezza, soluzioni rapide e semplici davanti a problematiche complesse.
Partendo dai concetti da me qui sopra indicati, vorrei provare a mettere in pratica le indicazioni contenute nel famoso “Discorso del Metodo” di René Descartes e, accogliendo la provocazione del nostro direttore, propongo che l’analisi del fenomeno della violenza in continuo aumento: da quella che anima i più giovani a quella più trasversale e dal carattere all’apparenza politico, avvenga con il contributo di tutti.
Vorrei ricevere il maggior numero di spunti e suggerimenti riguardo ad uno o a più aspetti del fenomeno, in modo da poterli mettere in relazione, e integrandoli, azzardando un’analisi di più ampio respiro rispetto a quella che sarei in grado di proporre con il solo ausilio della mia testa, delle mie opinioni, delle mie sensazioni e dei miei pregiudizi.
Chi decidesse di collaborare a questo progetto, potrà mandarmi il suo contributo alla mail rossellapera.lagiustizia@gmail.com, oppure utilizzare l’area destinata ai commenti che trovate qui sotto.
1 commento
Secondo me l’aumento della violenza ha a che fare con una marcata assuefazione al linguaggio violento.
Questa assuefazione è sia nei modi che nei contenuti: si parte dalla ormai preistorica tv spazzatura anni ’80 in cui dove in una miriade di piccole reti private imperversavano personaggi che definire sopra le righe non dà esattamente l’idea e che dalla metà di quel decennio hanno cominciato a conquistare anche le tv generaliste nazionali.
Il linguaggio delle tribune politiche e/o dei contenitori serali/domenicali, così si chiamavano i talk show, è passato dall’essere sicuramente noioso e didascalico ad essere sguaiato e offensivo.
E’ ovvio che una comunicazione noiosa annoi… tuttavia per chi resiste ci si può sempre informare; molto peggio una comunicazione aggressiva e offensiva che provoca sia disgusto che dipendenza: vediamo come va a finire…, su cosa ci si dovrebbe informare diventa irrilevante (sic)
La comunicazione si sa veicola dei contenuti e il gioco è fatto: quando non veicola nulla è anche peggio!
Osservazioni banali le mie ma su un piano molto più approfondito se ne era occupato il filosofo Karl Popper nel saggio, “Television: a Bad Teacher”, in italiano noto come “Cattiva maestra televisione”.
Era l’ormai lontano 1994, un anno che si rivelò cruciale in questo senso, e rispetto all’oggi sembra veramente preistoria: teatro di provincia rispetto all’avvento dei social network, soprattutto a portata di telefono cellulare.
Oggi la cattiva comunicazione è straripante e incontrollabile, si è rotto il vaso di pandora e i risultati si vedono.
Non tanto ciò che dal punto educativo viene costruito a scuola alla mattina viene smontato al pomeriggio dalla tv come un tempo, ma addirittura i social network, le micro chat ecc ecc…, irrompono direttamente in classe, nel tempo libero, nelle serate in famiglia se non al lavoro.
La mala informazione del web non ci abbandona mai e ci precipita nella post verità, nella compulsione, nell’invidia, nella cattiveria come sfogo a un ritmo dannoso e gravemente patologico.
Il web non è più solo informazione in rete ma più un falso ecosistema sociale sovrapposto che compulsivamente porta ad una percezione dissociata tra vero e verosimile: ecco da dove in buona parte arriva l’insensibilità verso il prossimo, violenza inclusa.
Veramente ipocrite sono le contro argomentazioni sull’uso “smart” delle tecnologie digitali di “comunicazione” perchè il loro successo, almeno commerciale, è dovuto alla più ampia diffusione possibile.
Strumenti tecnologici e di comunicazione potentissimi a disposizione di chi non ha idea di cosa sta avendo a che fare e controllati da chi lo sa fin troppo.