Non è per la professione che svolgo e neanche una questione di cabala vista la somma del numero 285 che è 15, quindi un multiplo del 5.
Un numero ricorrente nella scienza esoterica e nella numerologia a partire dal pentagramma perché il 5 è, in matematica, non solo un numero primo, ma anche un numero intoccabile, ovvero non rappresenta la somma dei divisori propri di nessun altro numero.
E quindi ce lo ritroviamo, nella vita comune, a ogni angolo, se è vero che a calcetto si goca in 5; che si batte il five in quanto le dita della mano sono 5; che la sinfonia più oriecchiata è la V e non la IX e che Michael Jackson fece i suoi primi passi, nella musica pop, con i Jackson Five; perché nella scala primaria da 1 a 9 il 5 è posto esattamente al centro.
No non è per questi motivi che l’art.285 del Codice di procedura penale mi sta sulle scatole, ma piuttosto per il suo contenuto.
In questo insignificante numeretto sono contenute le norme che prevedono che una persona possa essere arrestata prima di una sentenza e le regole per l’applicazione di questa misura, che nel linguaggio guridico si chiama custodia cautelare.
La questione è etica e, se me lo consentite un secondo, è culturale.
La ragione di questo incipit è la notizia della liberazione di Eva Kaili, ex presidente del parlamento europeo, coinvolta nello scandalo chiamato Quatargate per il quale è stata ristretta alla custodia cautelare in carcere per quattro mesi.
Finalmente le hanno dato i domiciliari e potrà riabbracciare la figlioletta.
Fermi, aspettate a sparare.
La mia non è una posizione a favore dei delinquenti né potete liquidarmi con la solita frase: “il garantismo vuole garantire la impunità ai colpevoli.”
Non è così. Chi ha sbagliato paga e deve pagare. D’accordissimo, il problema è quando.
Non certo all’indomani della scoperta di un reato, quando tutto è a caldo, dalla smania delle forze dell’ordine di effettuare “una impresa” alla avidità dei media che devono sbattere un colpevole in prima pagina, dalla pancia della gente che ama vedere le gigliottine alla bramosa sete di vendetta di chi pensa di essere parte lesa.
Non certo prima di un regolare processo creando un mostro da dare in pasto alle masse per ascoltare la pronuncia di sentenze di popolo.
Non certo per favorire condanne ed etichette da colpevole che poi, mai e poi mai, nessuno riuscirà a scucirti di dosso perché la pena del ludibrio è eterna anche se tutti i tribunali del mondo ti riconosceranno innocente.
Perché il concetto di presunzione di innocenza è talmente sofisticato che la gente stenta a comprenderlo e non riuscirà mai a capirlo.
Non basterebbe una vita per raccontare i fiumi di scienza e cultura giuridica che danno un fondamento al principio di non colpevolezza (o presunzione di innocenza) nei quali si sono bagnati tutti i più grandi pensatori della storia moderna che si sono cimentati nelle ragioni dell’etica, della morale e del diritto.
Potremmo spingerci addirittura a Platone e al racconto, narrato nella sua “Apologia a Socrate”, delle tre difese che il filosofo ateniese fece a sé stesso in altrettanti processi a lui mossi (abbastanza campati in aria) e che si conclusero con la sua condanna a morte. Era il 399 a.C. ma già da allora Socrate teorizzava che una persona è da considerarsi innocente sino alla condanna definitiva, che le prove devono essere addotte da chi accusa e non da chi si difende e che, in mancanza di prove, una persona non può essere condannata e deve essere considerata innocente.
Quanta fatica e quanto sudore sono costati a noi, studenti di giurisprudenza, fustigati dal severo professor Mercadante, quegli studi matti e disperatissimi nella filosofia del diritto, tutti protesi, a partire da Socrate, passando per Hobbes, Locke, Poitier, Rousseau, per finire al mio concittadino Capograssi, nel cercare di capire che uno Stato, nell’adottare tali principi, sceglie, scientemente e consapevolmente, di preferire il rischio che un colpevole vada in giro piuttosto che un innocente sieda, anche per un solo giorno, in carcere.
E non il contrario. Come invece pensa spesso la massa quando davanti ai telegiornali, nella quiete delle credenze delle case degli italiani non raramente si dice: “non sarà mica uno scandalo se un presunto innocente finisce in carcere”.
Di primo acchito la frase disorienta nel pieno della sua aberrante dimensione che lacera dal diritto all’etica e alla morale, ma a ben guardare non è altro che la sintesi ideologica di un modo di pensare che non è nuovo, purtroppo, dalle parti del bel paese.
Fa il paio con la pesca a strascico che certi pubblici ministeri, anche abbastanza mitizzati, fanno quando ordinano retate di tre, quattrocento persone, perché tanto una “decina che sono davvero colpevoli in mezzo ci capiteranno sicuro”.
Fa il paio con il “non poteva non sapere” che fece da teorema per la mattanza di mani pulite.
Fa il paio con il “concorso esterno in associazione mafiosa” che fece mettere sotto accusa chi i mafiosi li incontrava senza saperlo in mezzo a migliaia di persone presenti a un comizio o a una conferenza.
Insomma fa il paio con chi pensa che la giustizia sia un rituale sommario e non la strenua ricerca della verità perché l’importante è avere “un colpevole da linciare” e non “il colpevole” da condannare.
A ben pensare però non è cosa nuova, non è una mentalità nata ieri pomeriggio, è roba antica: fu la storia di un popolo che scelse la liberazione di un ladrone perché condizionata dalla maldicenza, perché aizzata dall’istinto, perché accecata dal desiderio del sangue.
A ben guardare fu la storia della passione di Gesù.