di Salvatore Sechi
Eletta in maniera plebiscitaria, senza un voto segreto (anzi con un applauso a scroscio) alla testa di un partito che non ha fatto in tempo a conoscere, Elly Schlein ha concordato con Stefano Bonaccini quel che si temeva, cioè la persistenza di un “passato che non passa”.
In altre parole, progetti di cambiamenti epocali e innovazioni planetarie come quelle facilmente preannunciate, si basano sul corpo vecchio e stramazzante del Pd.
La composizione dell’Assemblea nazionale (600 delegati elettivi +20 persone) e della Direzione (quasi 150) è quella classica dei corpi collegiali. Si sa da sempre che si riuniranno poche volte e non dirigeranno niente. Non importa che siamo rubricati come gli “organi chiave” del Pd.
Per fare un esempio, il “parlamentino” (cioè l’Assemblea nazionale) per il tramite della maggioranza assoluta dei suoi membri potrebbe provocare grossi inconvenienti alla segretaria, cioè toglierle la fiducia.
Attualmente la sua composizione include: i segretari fondatori del partito, i segretari ad esso iscritti, gli ex premier iscritti, i segretari provinciali e regionali delle città metropolitane e delle federazioni all’estero, il segretario dei Giovani democratici, la portavoce della Conferenza nazionale delle donne, le indicazioni (ad opera dei rispettivi gruppi) di 100 tra deputati, senatori ed euro-parlamentari, i sindaci delle città metropolitane, dei Comuni capoluogo di provincia e di regione e i presidenti di Regione in carica.
Chi può dire che la Schlein vi abbia la maggioranza? E se l’avesse, come sembra certo nei gruppi parlamentari, Bonaccini, che apparentemente si è rassegnato al ruolo formale di perdente?
La stessa domanda si può avanzare per la Direzione appena eletta e, appunto, per i capigruppo alla Camera e al Senato. In tutti i casi a dominare è l’ostilità al voto protetto, cioè segreto, e ai verbali.
Fortunatamente per la neo-eletta si tratta di organi (Assemblea e Direzione) complessivamente ininfluenti. In primo luogo per i grandi numeri che lo formano: sono contenitori troppo numerosi; in questi casi il principio della partecipazione ampia al processi decisionali si scontra con la necessità che in molti casi le misure da assumere siano rapide, per emergenze e simili. A farla da protagonista è la segreteria, che ha il numero più basso di membri, cioè appena due (entrambe donne).
Quando si dilata la composizione degli organi dirigenti il segnale è preciso e cioè, che a funzionare è la doppiezza.
Il Comitato centrale del Pci
L’esempio più nobile è quello del Comitato centrale del Pci. Le sue riunioni servivano a capire come i corpi intermedi e inferiori del partito avevano reagito di fronte alle scelte politiche della leadership tra una riunione e l’altra di tale organo.
Era, dunque, una sorta di controllo collegiale sul come e sul quanto l’orientamento stabilito dal vertice era condiviso dalla base del partito. Non ha mai stabilito la linea politica.
Questa competenza istituzionale nel Pci era della Direzione. Per questa ragione era formata da un nucleo e non da una fiumana di compagni la cui opinione, a differenza di quella dei membri del CC, contava, eccome se contava.
Quando la composizione della Direzione si allargò, tale esito fu dovuto all’ampliamento dei componenti della segreteria del partito.
Nel caso del Pd, per eleggere un organo come la Direzione, decapitata di ogni reale potere di intervento, si è fatto ricorso al peggio della storia del partito, e cioè a capi-corrente, ai cacicchi e al nuovo albero da sfrondare, il gender, cioè le donne.
Lo sfogo esecratorio di Schlein contro questa fauna prendi-tutto fa parte della grande teatralità data all’auspicata rinascita del Pd. Ma non si può spacciare per una novità iconoclasta. I predecessori della Schlein (da Renzi, a Zingaretti, a Letta) non hanno mancato di sbracciarsi contro lo “scaccicato” e il “notabilato dominante” nelle fila del partito. Oggi non è cambiato nulla, a parte la farsa di scongiurarne la presenza. A parole.
I giornali, a cominciare dal Corriere della Sera, hanno riportato i nomi dei membri della Direzione che appartengono alle vecchie correnti e sono stati suggeriti (o imposti) alla segreteria e al presidente: Franceschini, Orlando, Letta, Guerini, Orfini, De Luca, Emiliano ecc. Tutti costoro fanno parte di diritto di questa struttura istituzionale. Nessuno del nuovo summit del partito ha sprecato una riga per smentire che, quanto riferito sulla rinnovata prassi spartitoria da Daniela Preziosi sul Domani (il proprietario, Carlo De Benedetti, ebbe a suo tempo la tessera numero uno del partito nato dalla fine del Pci), da Wanda Marra sul FattoQuotidiano e da Maria Teresa Meli e Fabrizio Roncone sul quotidiano milanese di Via Solferino.
Con molta onestà Bonaccini ha confessato a alla nuova segretaria che che intendeva essere un capo-corrente, ma di smobilitar il grande gruppone che gli ha dato il 46,2% dei 1. 098.623 votanti alle primarie del 26 febbraio non ci pensava proprio.
D’altra parte Elly Schlein non avrebbe vinto senza il consenso di sultani come Franceschini, Orlando, Fassino, Zingaretti, Bersani (influente anche se accasato presso Articolo Uno) etc.
Si potrebbe anche aggiungere che i membri da lei scelti per la formazione del gruppo dirigente, a parte l’ex segretaria della Cgil, Susanna Camusso, e un parlamentare di grande qualità come Francesco Boccia, pongono qualche problema quanto a competenza, professionalità, autorevolezza. E’ il caso di Laura Boldrini, Pina Picierno, le stesse pitbull Loredana Bertone e Chiara Gribaudo. Sulle tematiche messe al centro del programma (scuola pubblica, lavoro, salari, ambiente diritti civili etc,) quanto possono dire di disporre di conoscenze specialistiche?
Il Pd in 15 anni ha cambiato 11 segretari. Ora si appresta ad un percorso in testa al quale c’ è un presidente come Bonaccini che controlla l’organizzazione e l’elite amministrativa del partito, e una segretaria che, come si diceva una volta, deve ancora farsi. Il passaggio dall’utopia al programma concreto non è un balletto per diciottenni.