Di Salvatore Sechi
Scalfaro, i pentiti, l’esercito e l’ex Pci nella trattativa Stato-mafia
L’oscura (ma non impenetrabile) vicenda della trattativa Stato-mafia del 1992-1994 non può essere
interpretata nei termini che sembra delineare la recente sentenza della Cassazione. In attesa delle
motivazioni, induce a credere che ci sarebbe stato solo un tentativo da parte dei boss di impadronirsi,
togliendolo\contestandolo a chi come lo Stato legalmente lo detiene, il monopolio della violenza
legittima.
In realtà, dall’inchiesta di Leopold Franchetti e Sidney Sonnino, nel 1877, sappiamo che la mafia ha
sempre inteso riservarsi una discrezionalità, se non proprio libertà d’azione, in uno spazio territoriale
ben delimitato come quello della Sicilia. Solo nel 1993, fino all’attentato dei
fratelli Filippo e Giuseppe Graviano contro lo Stadio olimpico di Roma, e con l’aggressione alle
opere d’arte di Roma, Firenze e Milano, avrebbe ampliato il suo raggio d’azione armato sul piano
nazionale, al di fuori dell’isola.
Esiste, per la verità, un secondo livello (non sufficientemente esplorato) in cui Cosa Nostra ha
operato e opera. E’ quello degli investimenti nei settori della finanza, della Borsa, dei
supermercati, delle agenzie di viaggio, dell’eolico.
Fu un tentativo non riuscito quello di Totò Riina e Bernardo Provenzano di premere
sull’acceleratore della campagna stragista (da quel la del senatore Salvo Lima, nel marzo 1992, fino
agli omicidi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) per ottenere una mitigazione delle pene, a
partire dal 41bis, cioè del carcere duro e sbaraccando la legislazione sui pentiti?
Poiché i giudici della Suprema Corte argomentano che sarebbe stato un tentativo non riuscito quello di
minacciare lo Stato con una campagna stragista, intendono negare che ci sia stata una trattativa.
Ma com’è possibile tenere in piedi una narrazione di quegli anni di piombo di fronte al fatto che
due corti d’Appello di Palermo non convergono su niente (infatti il giudice Pelli non assolve tutti
gli imputati, mentre il giudice Montalto li condanna) salvo su un punto: la trattativa tra Stato e
Cosa Nostra c’è stata. Eccome se c’è stata.
Chi non la vede? Solo chi pensa che essa sia avvenuta nella firma di un bel contratto sottoscritto da
presidenti del Consiglio come Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, da ministri come Giovanni
Conso ecc., da un lato, da Riina e Provenzano dall’altra.
Nei regimi liberal-democratici chi viene a patti con la criminalità lo fa non in prima persona, ma
indirettamene. Nel nostro caso mediante l’ex sindaco Vito Ciancimino, e organi di grado inferiore
(come i Ros dell’Arma dei Carabinieri in questo caso), in un’ovatta spruzzata di ambiguità.
Se si esamina la trattativa non dal lato dei boss, ma dello Stato, mi auguro che nelle motivazioni la Cassazione vorrà spiegarci il comportamento di Oscar Luigi Scalfaro. Rispondendo nella fattispecie a quattro interrogativi:
1) per quale ragione, se non per alleggerire i boss delle misure del 41bis, fece leva sulla grande
mitezza e disciplina del ministro Giovanni Conso per fargli licenziare il capo del cosiddetto “dittatore
delle carceri” Nicolò Amato e sostituirlo con un giudice trentino di molto buon cuore?
2) come venne impiegato l’esercito inviato in Sicilia, per la prima volta nella storia dell’Italia
repubblicana, dal governo presieduto da Giuliano Amato?
3) in circa 10 anni quanti furono effettivamente i beneficiari (dai killer di Falcone a quelli della
camorra e della ‘ndrangheta) della legislazione premiale? Ha senso indicarla-come ha fatto Cirino
Pomicino- come un prolungamento nel negoziato Stato e mafia?
4) quale fu il ruolo degli ex comunisti che votarono contro i decreti Vassalli, la creazione della
Direzione nazionale anti-mafia e la nomina alla sua testa come primo Procuratore di Giovanni
Falcone?