Di Michele Chiodarelli
Domenica 12 marzo mentre a Los Angeles si assegnavano gli Oscar, è morto a Ketchum (la stessa cittadina in cui è deceduto Ernst Hemingway), a 76 anni appena compiuti Dick Fosbury. Il nome forse non dirà molto ai più ma si tratta di uno dei pochissimi sportivi ad aver innovato la propria disciplina, nello specifico il salto in alto, in un modo così profondo che si può, senza tema di smentite, affermare che dopo di lui nulla è stato come prima (la campionessa azzurra Sara Simeoni ha dichiarato che Dick è stato l’uomo più importante della sua vita, chiaramente non per ragioni sentimentali).
Insomma, Fosbury, scavalcando l’asticella di schiena, ha rappresentato per l’atletica ciò che per esempio nel calcio hanno significato allenatori come Herbert Chapman, dapprima, che all’Arsenal, tra gli anni venti e trenta del secolo scorso , inventando il “sistema” ha introdotto la tattica in un giuoco che fino ad allora era stato istintiva propensione ad attaccare più che organizzazione difensiva; e successivamente Rinus Michels che estremizzando concetti già proposti dall’Austria nel 1930 e, soprattutto, dalla grande Ungheria nel secondo dopoguerra, con il calcio totale olandese, tutto pressing, zona e intercambialità dei ruoli fece dell’Ajax del 1965 il prototipo del football moderno.
Analoga importanza la ebbe, nel tennis, Bjorn Borg che vinse ancora minorenne Parigi, impugnando il rovescio a due mani, presa mutuata dall’hockey, con il dritto liftato in top spin archiviando così l’epoca dei gesti bianchi, dei colpi slice e piatti, delle smorzate e del serve and volley. Davvero rivoluzionaria in F1 fu la Cooper che perfezionando progetti già visti in Mercedes e in Auto Union, nel gran premio di Monaco del 1957 presentò per la prima volta una monoposto spinta da un motore sito alle spalle del pilota, che nello scetticismo generale (Enzo Ferrari disse che non aveva mai visto i buoi dietro al carro), si aggiudico con Jack Brabham due campionati mondiali, obbligando tutti gli altri costruttori ad adeguarsi al nuovo che avanzava.
Caratteristica comune degli esempi citati è che si è trattato di esperienze tutte anche di grande successo agonistico, con protagonisti visionari (ante Steve Jobs) che con coraggio sono andati in direzione ostinata e contraria così tanto da influenzare per sempre tutto ciò che è arrivato dopo.
Il salto in alto era una specialità certamente conosciuta nell’antica Grecia anche se, stranamente, considerato il desiderio primordiale dell’uomo di staccarsi da terra, non faceva parte di alcun programma di gare, probabilmente per le difficoltà di misurazione e per i rischi connessi alla ricaduta. Non mancano prove, invece, che il salto fosse praticato in Africa, in particolare dalla popolazione dei Vatussi, che ogni tre passi fanno sei metri, e che in Europa appartenesse alla tradizione celtica.
Nel rinascimento il salto in alto viene regolarmente praticato. Dopo la campagna d’Italia di Carlo VIII, re di Francia, fra i tanti intellettuali che si trasferirono oltralpe vi fu anche Arcangelo Tuccaro che scrisse il trattato “Tre dialoghi sull’esercizio di saltare e volteggiare per aria”. Nei secoli successivi il salto in alto si diffuse, per ovvie ragioni d’utilità, soprattutto nelle accademie militari della Germania, della Gran Bretagna e irlandesi, per divenire alla fine del diciannovesimo secolo uno sport globale.
A quel tempo si cercava di superare l’asticella frontalmente saltando a forbice; poi di evoluzione in evoluzione anche regolamentare, all’inizio non era consentito che le spalle e la testa dell’atleta anticipassero il resto del corpo, si giunse allo scavalcamento ventrale che sembrava la tecnica perfetta. Fino a che d’improvviso alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968, le prime disputatesi in altura e in un paese latino-americano, apparve Dick Fosbury, che saltando all’indietro proietta lo sport verso il futuro.
Se il mondo è andato, da allora, in alto è per merito di quell’allampanato studente d’ingegneria di Medford, figlio di immigrati inglesi, che al liceo stanco di perdere si inventò uno stile, più adatto al suo fisico, che lo faceva sembrare sdraiato tanto che un giornalista lo definì “il saltatore fannullone”. All’Università poi perfezionò la tecnica passando da un’inclinazione di 45 gradi a una di 80, iniziando, così, a vincere. Quando parte per i Giochi ha 21 anni, nessuno lo conosce, tranne il russo Gavrilov (sarà medaglia di bronzo) che è andato ad allenarsi in Oregon.
Tutti sono scettici, Fosbury si allena sotto il sole, è la sua prima trasferta, è scampato per un soffio alla guerra del Vietnam (congedato per una malformazione alla colonna vertebrale), non è mai uscito dall’America, a spiarlo c’è solo un incuriosito atleta italiano, l’ostacolista Eddy Ottoz. Per farla breve: Dick sale a 2,24, e conquista l’oro olimpico. Sostanzialmente Fosbury prendeva una lunga rincorsa, effettuava una curva destrorsa, staccava con il piede più lontano dall’asticella (all’opposto dei ventralisti), raccoglieva al petto il ginocchio sinistro e voltando le spalle all’ostacolo da superare lo scavalcava di schiena sulla quale poi ricadeva (ovviamente tutto ciò divenne possibile quando nella zona d’atterraggio i materassi di gommapiuma sostituirono la sabbia).
Mi piace, infine, pensare che Dick abbia ideato il suo rivoluzionario gestro fisico non casualmente nel 1968, un anno formidabile, per citare Mario Capanna, attraversato da fermenti politici etici, socio-culturali talmente importanti da rendere possibile anche volare all’indietro. De resto era consapevole di far parte di una generazione di campioni in cerca di libertà e di diritti capace di sognare e Dick Fosubury, in fondo, voleva solo provare ad arrampicarsi fino al cielo.