di Edoardo Crisafulli
Esiste – ed è teoricamente concepibile – un Dante di destra? Il Ministro della cultura, Gennaro Sangiuliano, è convinto di sì (“La mia provocazione su Dante”, Corriere della Sera, 15.1.2023). Io penso che abbia ragione, fatti i distinguo del caso. I concetti chiave dell’universo dantesco sono l’antitesi della visione progressista: sacralità della tradizione, immutabilità delle gerarchie, dominio in ogni sfera della religione intesa dogmaticamente, natura divina del potere politico, centralità del libero arbitrio (la facoltà innata che ci consente di scegliere fra il bene e il male), e primato del politico. Marx una teoria dello Stato non ce l’ha (così Bobbio, su Mondoperaio, negli anni Settanta). Dante invece sì, e che teoria! Illuministi e marxisti, inoltre, teorizzano il relativismo, la storicità dei valori, che puzza di satanismo. I tradizionalisti non si battono forse contro la dittatura del relativismo che contraddistingue i tempi odierni? E a chi, se non a Dante, dovrebbero rivolgersi?
Ecco che l’inquisizione laica – di ascendenza marxista – scatena il finimondo. Massimo Cacciari invoca nientedimeno che le dimissioni: troppo grave – o eretica? – l’esternazione! Luciano Canfora lancia un’accusa: questa è “propaganda infantile”. È così dal dopoguerra: solo ai pifferai della rivoluzione, agli intellettuali organici spetta il diritto di assegnare patenti di legittimità, democratiche e culturali. Un diritto, questo, di natura monarchica – la cultura c’est moi – il quale implica il dovere della vigilanza. La lotta al fascismo eterno, mostro dalle mille teste, val bene la rinuncia alla tolleranza. Questa polemica è il termometro che rivela lo stato febbricitante della nostra cultura. Per dar prova di antifascismo duro e puro, certi intellettuali di sinistra sedicenti democratici ridicolizzano i loro omologhi di destra, l’erbaccia ideologica cresce rigogliosa solo nel giardino altrui. Siamo diversi, noi liberal-socialisti: siamo i figli del mitico saggio “Pluralismo o leninismo”, noto come il “Vangelo socialista”, scritto da Craxi e Luciano Pellicani. È dal libero dibattito che nasce la verità – se esiste. I democratici sinceri hanno assorbito la lezione liberale. Gli intellettuali-mandarini no, loro hanno il monopolio della verità.
Di fronte all’ideologia, non valgono né logica né ragionevolezza: ai chierici della sinistra saccente è consentito ciò che ai destrorsi è precluso. La demonizzazione dell’avversario, per esempio. Viviamo in un mondo instabile, postmoderno; galleggiamo in società liquide, senza appigli, sicché domina il caos concettuale. Beati gli intellettuali radical-chic o antagonisti per civetteria! Costoro hanno la testa nel Ventennio, sicché maneggiano formulette schematiche: destra uguale neofascismo. E difatti è scoccato, come l’arco dalla freccia, l’automatismo pavloviano: la provocazione dell’esponente di Fratelli d’Italia celerebbe un revanscismo in salsa fascista. Poiché le radici di quel partito sono nel Movimento sociale, ovvio che si voglia legittimare l’appropriazione di Dante durante il Ventennio. Già i primi commentatori della Commedia avevano arato il terreno traducendo in numeri romani (DXV) la profezia “nel quale un Cinquecento dieci e cinque, messo di Dio, anciderà la fuia/con quel gigante che con lei delinque” (Purgatorio, XXXIII. 43-44), che interpretarono poi come un anagramma di DVX. Un’allusione criptica al celebre Veltro? Ovvero a colui che salverà l’Impero o la società da corruzione e decadenza? Mah! Sta di fatto che i fascisti ne dedussero un mirabolante riferimento al Duce per eccellenza: Mussolini! (Stefano Jossa, “Per Dante, svoltare a destra, Doppiozero, 16.1.2023). Ridicolo, sì. Ma I fascisti si ispirarono a vecchie fonti protestanti, quindi ‘progressiste’, secondo cui il “Cinquecento dieci e cinque” anagrammato profetizza la venuta di Lutero, ipotesi confermata, secondo gli esegeti anticattolici, dalla lettura ‘corretta’ del Veltro, nome-simbolo che celerebbe un altro anagramma: sì, Dante allude sempre a lui, al grande riformatore tedesco (la V, qui, si legge U). Questa interpretazione esoterica – Dante precursore della libertà di coscienza per via di segni occulti – ispira il patriota Gabriele Rossetti (1783-1854), il quale, nel suo Comento analitico, pubblicato quand’era esule in Inghilterra, legge i versi danteschi come fossero fondi di bottiglia. Non tutti i liberali osavano spingersi fino a quel punto. Cionondimeno il Dante proto Protestante, libertario, nonché profeta dell’unità nazionale, è il paradigma dominante nella cultura protestante e negli ambienti progressisti di mezza Europa. È a quel filone che si allaccia nel 1854 Eugène Aroux, quando dà alle stampe il suo Dante eretico, rivoluzionario, socialista. La destra fascista non fa altro che esasperare un aspetto della lettura risorgimentale, quello per cui Dante è il padre della sacra patria. Cosa che più anacronistica non si può, essendo il concetto di nazione estraneo al Medioevo.
Che problema insormontabile sarà mai questo? I progressisti hanno partorito un Dante ancor più moderno: il teorico ante litteram della separazione fra Stato e Chiesa – questa lettura l’ha propagata, fra gli altri, uno studioso marxista: Umberto Cerroni. Si sbagliava di grosso, a rigor di filologia. L’imperatore, il difensore della cristianità, doveva filiale devozione a un Papa privato del potere temporale. Colui che teorizza il diritto divino della Monarchia, che sovrintende a una Res Publica Christiana, sarebbe l’antesignano delle democrazie laiche, in cui la legittimità proviene dal basso, dal popolo, e in cui lo Stato non impone alcun credo religioso? Non mi risultano polemiche su questa appropriazione indebita: il Dante progressivo ha sempre il vento in poppa, il Dante di destra è un palloncino sgonfiato. Questo è l’effetto dell’egemonia marxista: far apparire come naturale la propria visione del mondo, e un’impostura quella altrui. Al limite ci può stare un Dante reazionario, così sentenziò il poeta Edoardo Sanguineti, no? La sinistra che sale in cattedra e bacchetta, però, s’incarta da sola: decenni di propaganda antifascista hanno fatto sì che “reazionario”, “conservatore”, “autoritario” siano diventati sinonimi di “fascista”. Indro Montanelli non era un conservatore, bensì un fascista fatto e finito; il Preside che chiedeva la sospensione dello studente ribelle non era severo, rigido, bensì un fascista mascherato. E così via. Se non c’è una terminologia asettica, neutrale, tanto vale parlare di un Dante destrorso!
Luciano Canfora appartiene alla schiera degli eletti a cui è consentito attualizzare testi e autori del passato perché, attualizzandoli, portano alla luce la pepita scintillante. Eccolo, il gran paradosso di una intellighenzia radical-chic, figlia della più fascista delle riforme (così il Duce), la Riforma Gentile, la quale ha garantito per oltre settant’anni il baronaggio dei “luminari”: il classicista, trovandosi nell’empireo, può fare incursioni in ogni campo dello scibile. E infatti il nostro oracolo pontifica: è un fatto notorio che Dante fosse “libero e laico”. Libero non significa nulla; Dante si auto assoggetta al dominio del sacro, alle leggi di Dio. (Si legga Isaiah Berlin sulla libertà “positiva”, cioè illiberale, costrittiva, che caratterizza il cristianesimo, in antitesi alla libertà “negativa” del liberalismo, intesa come autonomia da ogni autorità). Dante, poi, era laico in una sola accezione: non apparteneva a un ordine religioso. Era avverso alla ierocrazia, al governo dei preti, non già alla teocrazia. Nel Medioevo la libertà di non credere, tipica del liberalismo, era inconcepibile. Canfora, pur di contraddire l’esponente di Fratelli d’Italia, s’arrampica su per gli specchi. E voilà, dal cilindro esce la categoria oggettiva: Dante era un reazionario. L’errore è da matita blu: anche quello è un termine moderno: rivoluzionari e controrivoluzionari nascono da un parto gemellare, nel 1789. Canfora, insomma, è il bue che dà del cornuto all’asino.
Che “destra” e sinistra” siano categorie moderne, risalenti alla Rivoluzione francese, è cosa arcinota. È pure risaputo che testi e autori antichi sprizzano vitalità proprio perché vengono “attualizzati” in epoche successive. Certo, c’è da chiedersi se le interpretazioni che si susseguono rispettano il dettato testuale o lo manipolano. La questione, in questo caso, non è solo accademica. È anche politica: riguarda il nesso teoria-prassi. Il quesito sulla legittimità del Dante destrorso ne provoca un altro: cosa significano, oggi, i concetti di destra e di sinistra? Storicamente, lo spartiacque è nel rapporto con la tradizione, più ancora che nel modo di concepire gli ideali di eguaglianza e di libertà. O, il che è lo stesso, eguaglianza e libertà sono concetti molto diversi nel pensiero tradizionalista e in quello progressista. In sintesi: difensori della tradizione sacra e immutabile di qua, progressisti e tendenzialmente rivoluzionari di là (& religiosi dogmatici e illiberali di qua; atei, anticlericali e religiosi modernisti di là ecc.). Il Marx teorico della rivoluzione violenta quale levatrice della storia, e distruttrice di ogni tradizione avita, è dai giacobini che prende il testimone. Poi, nel Novecento, sbocciò, con i revisionisti Bernstein e Turati, una visione riformistica contraria all’insurrezione armata, tuttavia pur sempre favorevole alla modernità. La distinzione fra conservatori e progressisti, quindi, ha tuttora ragion d’essere.
Intendiamoci: Dante elabora una visione politico-morale che si presta a letture contrastanti (Alberto Casadei, “Dante di destra, alla prova dei fatti”, Le parole e le cose, 19.1. 2023). In ciò risiede la sua universalità, che non è assenza di politica, bensì, appunto, polisemia: capacità di generare una molteplicità di idee stimolanti, in vari contesti. Un autore geniale riesce ad illuminarci da ben sette secoli! Dante comprende la necessità dell’equilibrio dei poteri, purché essi siano legittimi, idea architrave delle democrazie liberali riformulata da Montesquieu. L’idea di legittimità è mutata radicalmente, quella dell’equilibrio no. Non è, questa, la formula perfetta che garantisce società pacifiche e armoniche? Dante è animato da una forte tensione idealistica-utopistica, mira a restaurare un ordine eterno, sì, ma fondato sulla giustizia e sulla pace. Un Dante reazionario o rivoluzionario è eccessivo, ma un Dante “conservatore illuminato” o, perché no, riformista, è plausibile: egli reagiva con sdegno al caos politico e morale di una società in fermento, lacerata da conflitti endemici, caotica perché priva di guide autorevoli — il papa e l’imperatore eran venuti meno alla missione di collaborare per il bene comune.
Non si evita il confronto affermando che Dante è un poeta, perbacco, sicché va spoliticizzato – e in nome di cosa, di un ecumenismo nazionalpopolare, da quattro soldi? Come può essere impolitico l’autore del più importante trattato politico dell’alto Medioevo, nonché di un poema grondante politicità in quasi ogni terzina? Un Dante che non infiammi gli animi, un Dante impolitico, e quindi inattuale, è un Dante atrofizzato, imbalsamato, pronto per il museo delle cere. Qui la lettera, l’accademismo astratto uccidono lo spirito. Dante fu un diplomatico di prim’ordine e una figura esemplare del politico di parte che sposa una causa nobile e lotta per essa con coerenza, costi quel che costi. Sia chiaro: partigiano non significa fazioso: Dante aborriva gli scismi religiosi e le guerre civili. Guai a sovvertire l’ordine costituito, garanzia di concordia. Reimmettiamo dunque in circolo almeno il “libero arbitrio”, balsamo per le ferite della modernità! L’era dell’irresponsabilità lo esige. Come a suo tempo, in pieno Risorgimento, allorché lo Stato della Chiesa impediva l’unificazione politica della Penisola, c’era bisogno di un Dante nemico del potere temporale dei papi e fautore della libertà di coscienza. Infinitamente meglio l’anacronismo filosofico che illumina l’azione rispetto alla rinascita, questa sì reazionaria, di un’egemonia che ha ingessato per decenni la società italiana. Sangiuliano, infatti, ha detto un’altra cosa, sfuggita ai più come l’acqua nello scolapasta: ‘cari compagni, noi non vogliamo costruire un’egemonia che soppianti la vostra’. L’affermazione è rivoluzionaria: segnala una torsione in senso liberale da parte della destra ex missina. Gli intellettuali radical-chic ripudieranno il concetto di egemonia, da cui dipende il potere delle (loro) baronie e che assicura una eccellente rendita di posizione?