Uno dei pochi fenomeni nostrani capaci di attraversare e lordare trasversalmente ogni esperienza sociale e individuale. La mafia è una sottocultura perversa, male endemico organizzatosi nella tensione tra le forze centripete del moderno stato unitario e quelle centrifughe di classi dirigenti (siciliane e continentali) miopi e improbe. Capace di sfruttare a proprio uso e consumo ogni stravolgimento storico, almeno fin quando la Sicilia ha avuto un forte senso strategico nazionale e internazionale (Unità, zolfo, granaio di grano e di voti, guerre calde e fredde, terrorismo…).
Siamo oltre quarant’anni dal principio della fase stragista, decenni di cui i magistrati vorrebbero scrivere la storia in tribunale, per compiere la loro egemonia socioculturale; decenni da cui politici e boiardi di stato vorrebbero trarre condanne vere e proprie per gli avversari.
Siamo nei postumi della Seconda Repubblica, cominciata con la strage di Capaci che forzò la mano al parlamento per eleggere, in fretta e furia, Oscar Luigi Scalfaro Presidente della Repubblica. Elezione che tagliò la strada al CAF (Craxi Andreotti Forlani, con relativo indotto) che stava provando a fortificarsi mentre le macerie del Muro di Berlino stavano per travolgerli.
I quasi sessanta giorni tra le stragi di Capaci e via D’Amelio furono la definitiva incubazione di un movimento, quello antimafia, che già negli anni Ottanta sembrava aver destato le “coscienze sopite” dei siciliani.
La lotta alla mafia è molto più antica però, con la differenza che inizialmente interessava solo due parti del Paese, contraddistinte e addirittura contrapposte: da un lato le forze dell’ordine, dall’altro il movimento contadino e sindacale.
Le forze dell’ordine erano progresso istituzionale, le organizzazioni di massa progresso sociale: l’insufficienza delle classi dirigenti impedì il mutuo sistematizzarsi (pur per contrasto, come in Germania) di questi elementi creando lo spazio strategico per l’organizzazione mafiosa, a un tempo manganello dei potenti e camera di compensazione per sfruttati. Esplicito un segmento di questo ragionamento: le classi dirigenti iniziarono allora così a mortificare anche il sacrificio delle forze dell’ordine oltre alle rivendicazioni sociali.
Potremmo dire la lotta alla mafia più antica della mafia stessa, o meglio più antica della coscienza e dell’organizzazione mafiosa. Inizialmente la mafia era un magma sottoculturale che, al di là delle specificità, poteva (e può ahinoi) essere assimilato a diverse mentalità delle periferie della modernità (come il Kanun albanese), sopravvissute nella contemporaneità principalmente in due grandi sacche di arretratezza: contado e sottoproletariato urbano.
La borghesia (sia quella isolana che quella continentale) e le istituzioni hanno cominciato una sistematica lotta contro la mafia solo dopo l’ascesa dei Corleonesi, ovvero quando Cosa Nostra aveva iniziato una vera e propria campagna militare che mirava al proverbiale cuore dello Stato, ai suoi più alti funzionari e soprattutto ai borghesi stessi, specialmente i professionisti e i politici che prima dividevano il pane con la “precedente gestione”.
Sarebbe opportuno quindi parlare abbondantemente anche della storia della mafia (e dell’antropologia siciliana, in particolare quella della Sicilia Occidentale), ma chi ospita questo articolo è già troppo gentile a pubblicare questo malloppone. Di mafia si parlerà solo in qualità di forza della reazione, si parlerà di mafia anticontadina, antisociale. Di come la sottocultura e l’organizzazione mafiosa abbiano contribuito ad arrestare la maturazione di una coscienza politica (sociale, civica, ecc) del popolo siciliano. Processo iniziato con l’affermarsi del socialismo postunitario e troncato con la seconda guerra mondiale, ovvero con la nascita di Cosa Nostra come la intendiamo oggi.
Fasci Siciliani
Nella seconda metà dell’800 cominciarono a nascere partiti socialisti in tutta Europa, con esperienze diversissime. In Italia il partito socialista nacque da un’insolita convergenza di socialisti scientifici (marxisti), utopisti (legata ai filosofi francesi), parte del movimento mazziniano e persino di una vastissima componente anarchica, aspetto che caratterizzerà fortemente il carattere libertario del socialismo italiano, più attento alla pluralità dell’emancipazione rispetto a partiti puramente marxisti. A livello pratico, la componente genetica anarchica garantì anche un’attenzione notevole per le istanze contadine, non proprio consideratissime dalla prammatica marxista, concentratissima invece sulla coscienza della classe operaia (unico motore della rivoluzione proletaria).
Con “Fascio” si intendeva una forma associativa di lavoratori dello stesso mestiere. A differenza delle corporazioni, i fasci erano organizzazioni di classe, a differenza dei sindacati non soffrivano di quell’elitismo che degenera in leadership ristrette e discriminazioni tra lavoratori. Fu la Prima Internazionale a spingere verso simili strutturazioni delle rivendicazioni sociali, soprattutto per il mutuo soccorso. Formalmente erano delle organizzazioni aderenti al Partito dei Lavoratori Italiani (primitivo nome del PSI).
In Sicilia il primo Fascio dei lavoratori venne fondato a Catania (Primo maggio 1891) da Giuseppe De Felice Giuffrida. Ne sorgeranno presto tanti altri in Sicilia (un centinaio in due anni) e, oltre a De Felice Giuffrida, citiamo anche Nicola Barbato, Rosario Garibaldi Bosco e Bernardino Verro. Non semplici capipopolo ma ideologi anche raffinati. Nel Maggio 1893 si celebrò il primo congresso regionale.
Immaginate il terrore di baroni e gabelloti davanti a un assembramento di cinquemila uomini, donne e ragazzi tra rappresentanti dei fasci, del partito e dei circoli socialisti.
Feudatari e altri sfruttatori si ricordarono che a Roma avevano rappresentanti e governanti, cominciarono a pressarli per la repressione. Questo Stato Unitario doveva pur servire a qualcosa! All’inizio il governo preferì la persecuzione, da parte di agenti di polizia, dei capi del movimento ma nonostante arresti, pressioni, pedinamenti e violenze, il numero dei fasci salì oltre il centinaio. Contando circa 300 mila aderenti formali più tanti altri coinvolti informalmente (soprattutto giovanissimi), per un totale vicino ai 500 mila aderenti e simpatizzanti tra contadini, minatori, manovali e borghesi.
Circa un sesto dell’intera popolazione isolana era coinvolta attivamente (non semplicemente iscritta) in un movimento di massa come mai più in Italia e forse in Europa (solo la Rivoluzione d’Ottobre e forse il biennio rosso), un’esperienza che avrebbe potuto avere la rilevanza mitologica della Comune di Parigi. Superiore persino ai moti nella più matura italia settentrionale, come la boje il decennio prima.
I fasci siciliani superarono la mera lotta di classe operaia, giungendo fattivamente alla solidarietà di tutti gli sfruttati: non solo le donne, la cui questione era già all’ordine del giorno del movimento operaio internazionale, ma anche i ragazzi, intesi per la prima volta come soggetti (e non solo oggetti) economici e politici. Non è un caso che fondatore della Federazione dei Giovani Socialisti sarà Arturo Vella di Caltagirone che, sebbene di buona estrazione sociale e presto trasferitosi a Roma, conosceva bene le condizioni del lavoro minorile siciliano.
Ricordiamo a tal proposito i carusi, bambini che lavoravano nudi nelle infernali zolfare.
I fasci siciliani furono anche avanguardia mondiale nella solidarietà interculturale: grande fu infatti il contributo delle enclavi arbëreshë di Piana degli Albanesi e Contessa Entellina che, con lo stesso animo di Castriota, lottavano a un tempo per i diritti sociali e per la loro identità culturale.
Ciò non avveniva per fortunata “improvvisazione” ideologica, non era un sentimento ingenuo. Ciò avveniva non a caso nel calderone del socailismo italiano, quello delle turatiane libertà solidali, per cui i dirigenti, e ideologi, dei Fasci Siciliani, conoscevano bene il dibattito nazionale e internazionale: cercarono dunque con l’azione di dimostrare (soprattutto ai marxisti) come anche la lotta contadina nascesse dallo sviluppo capitalistico, esattamente come quella operaia delle città; così come cercarono di dimostrare (soprattutto alle classi dirigenti) come le tensioni sociali fossero frutto anche del mancato sviluppo del capitalismo in forme più razionali. Infatti, il loro principale obbiettivo era la revisione dei patti agrari, denunciando l’insufficienza della borghesia latifondista (terre incolte, arretratezza tecnica, irrazionalità infrastrutturale, imprenditoria parassitaria…) in direzione di un pluralismo socialista (non dei semplici “tumulti” di manzoniana memoria). Nacquero tante cooperative. I conservatori del resto d’Italia cominciarono a preoccuparsi. Le prime tensioni tra fasci e forze dell’ordine finirono con la morte di quasi un centinaio di lavoratori e di un agente di polizia.
Messo da parte Giolitti alla fine del 1893, salì al potere il siciliano Crispi che proclamò lo stato d’assedio in Sicilia. All’inizio del 1894, il Comitato Centrale dei Fasci lanciò l’ultimo manifesto:
1) Abolizione dei dazi sulle farine (le tensioni erano sorte proprio per la fiscalità atroce e classista del governo centrale);
2) La sanzione legale dei nuovi patti colonici (una forma di mezzadria neo-feudale);
3) L’assegnazione alle collettività agricole dei beni incolti (il sistema feudale vigente in Sicilia era così inefficiente che la maggior parte degli immensi latifondi restava incolta);
4) L’espropriazione dei latifondi con indennizzo ai proprietari e inchiesta sulle pubbliche amministrazioni della Sicilia (da segnalare il carattere costruttivo di questo punto, esigenza di rispetto verso le Istituzioni e persino verso i “diritti” di proprietà, illuminante su di un movimento maturo e tutt’altro che eversivo per quanto ribelle, impensabile per la dottrina dell’odio di classe, quello sì molto immaturo tanto quanto saccente);
La repressione passò inizialmente dallo scioglimento coatto di tutti i fasci (2000 arresti, cominciando dai dirigenti). Non mancarono le vigliacche azioni delle istituzioni, specialmente della polizia regia, che fecero circolare una falsa documentazione insinuante relazioni tra i dirigenti dei Fasci e agenti francesi e russi, finalizzate all’indipendenza della Sicilia.
Gli anarchici della Lunigiana, per solidarietà e perché gli anarchici son sempre pronti ad accompagnare qualsiasi disordine dal basso, reagirono formando delle bande armate. Ciò confermò nell’opinione pubblica italiana l’idea di una cospirazione nazionale e internazionale (“com’è che dei minatori e intellettuali di Massa e Carrara si armano per difendere dei contadini siciliani? Infiltrati stranieri che voglion distruggere l’Unità!”).
Grande indecisione e dibattito in seno al PSI.
Non era solo una questione ideologica, era anche una questione pratica. Il PSI era appena nato in una giovanissima Italia monarchica tenuta con lo sputo, economicamente fragile, in lotta con la Chiesa, strozzata dalle tasse, in preda al brigantaggio e con una piccola borghesia divisa tra i campanili e le più varie esterofilie (situazione non troppo diversa dall’oggi, almeno per quanto riguarda fragilità economica, tassazione e pessima borghesia). Anna Kuliscioff, radiante madre del socialismo italiano, scrisse una lettera addirittura a Engels per chiedere consiglio.
La lettera esponeva a Engels la suddetta condizione nazionale, rilevando come il centro-sud fosse paragonabile alla Francia pre-rivoluzionaria (la definisce addirittura medievale) ma mancante di una borghesia abbastanza “colta e ardita” da guidare una rivoluzione modernizzante. Pose due domande al maestro: quale deve e può essere l’atteggiamento del Partito socialista? e Se questa massa incosciente, esasperata e numerosa esce in piazza, il Partito socialista dovrà starsene in casa ad aspettare tempi migliori?
Sottolineo che con “incosciente” si intendeva mancante della “coscienza di classe”, quindi presumibilmente non in grado di concepire e attuare un sistema altro da quello borghese.
La risposta di Engels, in coerente linea con il pensiero suo e di Marx, fu quella di schierarsi con le aspirazioni della lotta ma di non sacrificare i proletari mandandoli al massacro per delle sterili sommosse locali. Il PSI sarebbe dovuto intervenire solo se questo movimento dei Fasci fosse divenuto nazionale. Insomma ignorò le note in cui la Kuliscioff indicavano focolai nelle Calabrie e delle bande armate anarchiche della Lunigiana, per non parlare anche di tumulti, per quanto sporadici, nel Nord Est. Spontaneità che segnalavano invece una buona temperatura sociale, necessitante solo di una centralizzazione organizzativa per nazionalizzare il fenomeno.
La principale preoccupazione del “maestro” sembrava comunque essere quella di mantenere l’indipendenza dagli altri partiti (repubblicani e radicali) che volevano far montare la rivolta, preoccupazione che diventerà la malattia costante del comunismo: il non contaminarsi con le altre forze politiche (posizione esiziale tenuta anche da Gramsci quando spaccò la fragile opposizione a Mussolini spalancando la strada alla dittatura). Questa risposta non fermò comunque il sostegno di Turati e Labriola a sostegno dei fasci.
Per Turati il movimento siciliano non era una semplice rivolta della fame e aveva se non la forma, l’anima socialista, guai, dunque, al partito socialista se, appartandosi in un criticismo sistematico e dottrinario quale si conviene alla cattedra e, stando alla finestra in attesa della evoluzione compiuta, non saprà prendere per tempo il suo posto in mezzo ai ribelli dell’oggi – rivoluzionari di domani.
Il processo (marziale) ai dirigenti dei fasci si svolse tra aprile e maggio ’94. Diciotto anni a De Felice, dodici a Bosco, Barbato e Verro (dopo due anni verranno graziati). Fu uno dei primi e più importanti processi mediatici della storia d’Italia, trasformatosi in tribuna di propaganda della fede socialista. Le organizzazioni socialiste e operaie di tutta Italia si scatenarono e la reazione di Crispi fu quella di mettere al bando tutti movimenti sovversivi, compreso il PSI che aveva ormai deciso di passare dalla solidarietà ad azioni concrete per sensibilizzare il paese al dramma siciliano.
La mafia non era ancora l’Organizzazione che conosciamo noi, al di là di qualche “setta” di briganti nata nelle carceri, era ancora una sottocultura e un codice non scritto i cui agitatori erano i campieri con le “coppole storte”, braccio armato dei feudatari.
Mafia ancora embrionale infatti, se molti campieri sparavano sui fasci, qualche altro, nonostante le elargizioni di baroni e gabellotti, viveva immerso nella medesima miseria dei contadini (loro classe sociale di provenienza). Noto l’esempio di quello che diventerà il prototipo dei padrini: Don Vito Cascio Ferro, figlio del campiere di una nobile famiglia inglese stanziatasi nell’isola (a partire dal gran feudo di Nelson e poi dall’interessamento anglosassone per l’impresa garibaldina, significativo era l’interesse strategico britannico in Sicilia, con relativi capitali investiti). Il trentenne Don Vito, che aveva avuto accuse di estorsione e incendio doloso, diventò dirigente del fascio di Bisacquino, scappò in Tunisia e poi tornò facendo grossi affari vendendo in Africa il bestiame che rubava in Sicilia. Più avanti emigrerà in America, contribuendo a rafforzare quei legami tra la Black Hand nuovayorkese e la mafia siciliana nei quali si impiglierà il poliziotto italo americano Joe Petrosino.
Questa mafia, grazie al know how del sindacalismo criminale statunitense, cominciò a organizzarsi e conseguentemente a organizzare gli altri. A partire dai contadini, a cui i mafiosi iniziarono a proporsi come intermediari per le loro necessità. Così si stabilirono quei meccanismi insani per i quali i diritti diventano concessioni, la malattia alla base del progressivo imbarbarimento dei costumi siciliani.
In questa maniera la mafia cominciò a consolidare un certo consenso sociale, grazie al quale iniziarono anche a mettere in discussione sempre più l’effettiva disponibilità da parte dei feudatari verso le proprie terre, in parte gestite autonomamente dai mafiosi e dai loro affiliati. Un primo perverso welfare. Gli sfruttatori avevano creato un nuovo mostro di cui erano diventati ostaggi. Parafrasando Mao: il potere politico nasce dalla canna della lupara.
A cavallo dei due secoli
Con l’occasione perduta della primissima proposta socialista, venne l’era dell’emigrazione. Depressione economica, disumanità, malaria, analfabetismo e via cantando. Già nel 1882 il governo aveva iniziato ad incentivare l’emigrazione transatlantica. Un milione di siciliani (circa un terzo della popolazione) lasciò l’isola nell’arco di 50 anni. Solo il catanese si salvò da questo esodo grazie alle filande che attivarono addirittura un minimo di emigrazione interna dal resto dell’Isola e dalla Calabria.
Quando l’emigrazione è biblica, è impossibile per un popolo riprendersi, rialzare il capo, organizzarsi senza una visione forte. La rete ferroviaria principale non seguiva una strategia efficiente ma tattiche di piccoli interessi, perché i finanziatori erano soprattutto privati (commercianti stranieri in buona parte e poi famigliacce locali) e facevano passare i binari in mezzo ai loro affari anche a costo di rendere inutile il vantaggio della locomotiva sul carretto. Per andare da Palermo a Trapani si raddoppiavano addirittura i chilometri necessari. Alla fine del secolo, con tutti i capitali alloctoni e gli investimenti bancari, rinacque un’industria locale (soprattutto legata allo Zolfo) con relativo indotto.
Dopo la repressione dei fasci, il PSI sviluppò il modello sindacale cui facciamo in parte riferimento ancora oggi (con tutte le patologie note e meno note), un approccio più efficace per le contrattazioni collettive e per la difesa di singoli casi. La nascita di quei modelli di intermediazione che, insieme a certe camere di compensazione (come le logge massoniche dei minatori di Carrara), mise le basi per il progresso sociale che oggi la globalizzazione dell’Immediatezza Totalitaria vuol far passare per inefficiente e addirittura negativa. Lo sciopero organizzato diventò un mezzo più valido delle insurrezioni, anche se spesso a questo i padroni rispondevano con tradotte di crumiri, che altro non erano che poveri disgraziati affamati che venivano prelevati da zone ancora più misere. Lo sradicamento è, tra l’altro, sempre funzionale all’allevamento di generazioni di servi ancora più remissivi.
Al di là di salari, orari e condizioni più umane, si sviluppò una coscienza più alta (o più profonda?) nelle classi lavoratrici che iniziarono a lottare anche contro il lavoro minorile (grande fu la battaglia, iniziata comunque già dai fasci degli zolfatari, per alzare l’età minima di ingaggio per i carusi). I socialisti riuscirono anche a convincere i piccoli produttori ad aiutarli, visto che far passare certe istanze avrebbe ridotto il grande e sleale vantaggio dei più potenti latifondisti. Poco si ottenne, anche certe vittorie nazionali trovarono poco spazio in una Sicilia arretrata, nella quale lo Stato Centrale contava poco e dove ormai i mafiosi non erano più semplici kapò dei latifondi: da codice a organizzazione, da guardie salariate a esercito di iniziati. La lotta cosciente alla mafia inizia proprio a cavallo dei due secoli e nasce come vera e propria lotta di classe.
Il 14 ottobre del 1905 venne ucciso Luciano Nicoletti, contadino militante del PSI. Sopravvissuto alla repressione dei Fasci, viveva a Corleone (ma era nativo di Prizzi) dove insieme al Partito mise su la “cassa di resistenza” che serviva per aiutare gli scioperanti a sopravvivere. Fu poi promotore delle affittanze collettive, un primo modo per ridistribuire la terra incolta ai contadini, e ciò gli causò di essere ucciso dalla mafia. Pochi mesi dopo fu il turno di Andrea Orlando, chirurgo e consigliere comunale del PSI a Corleone che aveva preso il testimone di Nicoletti per le affittanze collettive. Sempre a Corleone, il sindaco socialista Bernardino Verro, eroe dei Fasci, verrà ucciso ancora per le affittanze collettive e poco dopo anche il contadino Giovanni Zangara. Nel 1911 il compagno Panepinto, insegnante e fondatore del Fascio di Santo Stefano di Quisquina, fu il promotore di nuovi metodi di lotta e organizzazione contadina (cooperative e casse agrarie) ma queste misure gli costarono l’odio dei gabelloti mafiosi che lo uccisero. La grande tradizione del sindacalismo agrario socialista dei monti Sicani iniziò con lui.
La Prima Guerra Mondiale ed il Fascismo
La guerra causerà un ulteriore impoverimento della Sicilia, troppi contadini moriranno lontani da casa. Alla fine di questa riprenderanno anche le lotte sociali e la guerra contro la mafia. Il “Biennio rosso” fu un fenomeno soprattutto del Nord Italia ma molti reduci di guerra, in Sicilia, erano stati educati al socialismo dai camerat…commilitoni del Nord che pubblicizzavano le più fortunate e avanzate esperienze della cooperazione nell’Italia industrializzata; questi socialisti della trincea furono tra i promotori di grandi occupazioni di terre, soprattutto nei vastissimi latifondi incolti della Sicilia occidentale.
Da ricordare in questi anni la morte di Giuseppe Rumore, sindacalista socialista, segretario della Lega dei contadini, organizzatori del grandissimo Sciopero delle campagne prizzesi, insieme a Nicola Alongi. Alongi fu il primo a denunciare sui giornali (La Riscossa Socialista prima, l’Avanti poi) che i mafiosi non erano che semplici esecutori e che i veri mandanti erano i capitalisti sotto il silenzio assenso delle autorità. Anche Alongi verrà ucciso, pochi mesi dopo. Sempre nel 19 verrà ucciso Alfonso Canzio, fondatore della Lega di Miglioramento dei Contadini di Barrafranca, consigliere comunale socialista. Le sue lotte all’inizio riuscirono ad ottenere condizioni migliori per i contadini ma con il suo assassinio, e con quello successivo del grande Orcel nel ’20, la mafia ottenne il rallentamento dei sindacati, che avevano perso due grandi innovatori.
A Petralia Soprana verranno uccisi Paolo Li Puma e Croce di Gangi, consiglieri comunali socialisti, legati ai minatori. A Trapani Giuseppe Monticciolo presidente socialista della Lega per il miglioramento agricolo. A Paceco Antonino Scuderi consigliere comunale e segretario di cooperativa agricola. Con una delle prime bombe di mafia, nell’affollata sezione di Casteltermini, oltre a numerosi feriti persero la vita il professor Giuseppe Zaffuto, segretario della sezione socialista, e quattro contadini.
Nel ’21 moriranno Pietro Ponzo, contadino e presidente della cooperativa agricola di Salemi, e Vito Stassi, detto Karushi, dirigente del movimento contadino di Piana degli Albanesi, una grande storia da studiare. A Vittoria Giuseppe Compagna, contadino e consigliere comunale socialista, ancora a Paceco i quattro fratelli Spatola, della società agricola locale e infine Sebastiano Bonfiglio sindaco socialista di Erice che, sebbene massimalista, non aderì al PCI scegliendo di restare dirigente del PSI.
La nascita del PCI causò infatti la spaccatura del fronte popolare, condizione determinante la vittoria del fascismo, che fu anche significativa rispetto alla mafia.
Certamente l’intransigenza violenta del metodo Mori, indirizzato a scardinare il prestigio della mafia nella popolazione, ci è ancora utile per capire le perverse dinamiche di consenso sociale dietro la forza di Cosanostra. Il fascismo, rispetto alla mafia, con buona pace dei comunisti, non fu semplicemente un alleato migliore del Capitale (come già detto i mafiosi rivolgevano la loro prepotenza anche contro i vecchi padroni, forti del consenso popolare costruito disinnescando i conflitti sociali), ma cercò anche di dare visione di Dignità Nazionale a un popolo che, dopo il grande ruggito dei Fasci Siciliani, piegato da piombo, fame ed emigrazione, era tornato a sperare l’elemosina paternalista invece che lottare per i diritti.
Però. Però. Però. Sebbene sia inoltre vero che il fascismo modernizzò la Sicilia, il regime non riuscì mai a risolvere le ingiustizie sociali siciliane, non solo per il patto con l’arretrata classe dirigente isolana ma anche per il proprio dirigismo corporativo, la propria micragnosità culturale e più praticamente per gli effetti disastrosi dell’aggressività bellica.
Durante la guerra, bastò un po’ di distrazione per riattivare il virus mafioso, vista anche la fragilità dell’ideologia mussoliniana in Sicilia, periferia scettica del fascismo (soprattutto dal punto di vista sociale). Gli Americani ne approfittarono ed è per molti storici ormai certo come, al fianco di Patton, bisogna anche inserire Lucky Luciano tra gli autori del successo militare alleato in Sicilia. C’è tanta mitologia a proposito, ma è comunque da rilevare come il suo uomo Vito Genovese fece da “mediatore culturale” a Charles Poletti (capo degli affari civili della VII armata) in Italia. Inoltre fu proprio l’esilio di Luciano in Italia (una grazia concessa per i suoi meriti verso la nazione?) a dare cominciamento al più perfido marchingegno mafioso: Cosa Nostra.
Socialismo e contadini nell’Italia Repubblicana
Non c’è però mica da dar colpa agli Stati Uniti per gli sviluppi successivi. Con la democrazia si aprirono praterie per la lotta dei lavoratori ma anche per la ripresa della mafia.
La Sicilia fu l’unica regione italiana a non doversi interfacciare coi traumi del 25 luglio, dell’8 settembre e della successiva occupazione nazista con annessa guerra civile e resistenza. I siciliani sono stati “liberati” e governati, come sarà per alcune regioni tedesche (che non hanno sviluppato patologie mafiose), da una vera e propria occupazione militare straniera.
Né i socialisti né i comunisti, a causa dei vent’anni di repressione, furono in grado di comprendere cosa si stesse muovendo nella società siciliana: una stranissima intesa tra contadini e piccoli e medi proprietari terrieri, questi non avevano intenzione di sottostare ancora alle angherie di un nuovo stato centrale che magari se la sarebbe intesa solo con i grandi latifondisti, come fu con l’illusione fascista. Ecco che in un primo momento la lotta di classe fu superata da una sorta di sentimento separatista che affratellava i diversi nell’autodeterminazione e autogestione.
Questo sentimento si perderà molto presto, quando dopo l’entusiasmo della “liberazione” ricomincerà la vita quotidiana (mentre il resto d’Italia era ancora in guerra). Le forze antifasciste nazionali elaboreranno intorno al ’44 una loro risposta al separatismo, legata a modelli autonomisti e quindi moderati. Alla fine sorgerà l’intesa pattizia dello Statuto, a natura “riparazionista” e quindi con una visione del rapporto Sicilia-Stato nel quale il secondo si impegna a dare delle garanzie agli interessi isolani. Di base lo Stato resterà dunque centralizzato e lo Statuto avrà un’efficacia limitata, presto castrata da ascarismi, miopie e divisioni interne, nel dare un autogoverno (e quindi vero regime di responsabilità) all’Isola, così come fungerà da filtro istituzionale nel recepimento di molte opere di modernizzazione nazionali.
Autonomia amputata, popolazione ignorante e un nuovo sistema democratico che permetteva, a chi sapeva organizzare consenso, di scegliersi i propri uomini nelle istituzioni.
Nella “Sala del Mondo” del Grand Hotel Et Des Palmes di Palermo, dove nacque Cosa Nostra, Lucky Luciano probabilmente spiegò questo ai “cugini” siciliani: la democrazia era una cuccagna, in America i sindacati della Black Hand lo sapevano bene.
Nel 1947, Socialisti e Comunisti, dopo la guerra, timorosi di un ritorno del fascismo o di nuove forme oppressive di Capitalismo, avevano formato il Blocco del Popolo (inizialmente anche insieme al Partito d’Azione) che in Sicilia, alle regionali di quell’anno, conquistò il 30% dei voti contro il 20% della DC. Con però un poderoso 14% dei Qualunquisti che (insieme ad altre forze moderate o reazionarie) contribuì a compensare il grande risultato socialcomunista.
Il 20 aprile ed i leader del Blocco decisero di convocare una grande manifestazione per il Primo Maggio a Portella della Ginestra. Il Primo Maggio, già in condizioni normali, era allora atteso dai conservatori con lo stesso animo con cui i cristiani sotto l’ISIS attendevano la preghiera del Venerdì, figuriamoci all’indomani di una simile affermazione.
La banda di quel personaggione di Salvatore Giuliano assaltò la manifestazione assassinando undici persone di cui trenta feriti (dei quali tre non sopravvissero). Molti erano arbëreshë, vale la pena ricordarlo.
Ci sarebbe molto da dire su quel giorno, ma è uno di quei capitoli speculativi che non vale la pena aprire in questa sede. Basti sintetizzare così: la “romantica” banda del bandito Giuliano era una feroce organizzazione paramilitare al servizio dell’ormai risorta, e fino ad allora mai così forte e ambiziosa, organizzazione Mafiosa. Fungeva da collante tra criminalità organizzata, ingenui indipendentisti, irriducibili fascisti ed interessi sistemici.
La guerra non aveva interrotto gli omicidi di mafia (né tra le forze dell’ordine, soprattutto carabinieri, né tra socialisti e comunisti) e Portella della Ginestra non fu né la prima strage né la prima azione criminale politicamente mirata (ricordiamo l’uccisione del sindaco socialista di Naro Pino Camilleri nel ’46 e del segretario della Camera confederale circondariale di Sciacca Accursio Miraglia, quello del celebre e zapatista “meglio morire in piedi, che vivere in ginocchio”, nel gennaio ’47) ma segnò l’inizio di una vera e propria campagna contro il progresso del popolo, in un contesto di colpevole ambiguità da parte delle istituzioni. Poco dopo seguirono la strage di Partinico (22 giugno) e quella di Canicattì (21 dicembre) e poi nel 1948 dei sindacalisti socialisti Epifanio Li Puma, capolega della Federterra, Placido Rizzotto, ex partigiano e segretario della Camera del Lavoro di Corleone e Calogero Cangelosi, segretario della Camera del Lavoro di Camporeale.
Purtroppo questi omicidi venivano tiepidamente liquidati come fatti marginali dalle istituzioni e dalla grande stampa borghese, episodi di inciviltà o di brigantaggio, quando invece c’era un preciso disegno di arrestare il sindacalismo riformista che era nettamente il più efficace per la sua capacità di mediazione tra proletari, classi medie e piccoli proprietari, l’alleanza più nociva per gli interessi del grande capitalismo reazionario e soprattutto di chi, come la Mafia (ormai con la maiuscola), voleva conservare per sé tutto il consenso ed il controllo sociale, senza concorrenza né delle organizzazioni di massa né delle forze dell’ordine.
Lo sterminio dei socialisti democratici continuò negli anni ’50, ricordiamo il caso esemplare del mitico Salvatore Carnevale della cui storia consiglio a tutti lo studio. In quegli anni “mafia” era una parola dell’antropologia culturale, della letteratura di serie B e della cronachetta; il cardinale Ruffini (studiatevi anche lui…) era uno dei più influenti negazionisti e feroci oppositori del socialcomunismo.
Nel ’56 i fatti di Ungheria portano finalmente Nenni a rompere del tutto con il tremendo PCI, inizia la prima stagione dell’autonomismo socialista che in pochi anni, grazie all’ingresso al Governo del PSI, aprirà le porte al boom economico, allo statuto dei lavoratori e a tutte le conquiste laiche e civili dell’Italia Repubblicana. La classe operaia comincia il suo processo di “incanalamento” e le campagne si spopolano o si urbanizzano, Pasolini si dispera e sorge la minaccia terrorista mentre la Guerra Fredda, tra distensioni e provocazioni, ingombra le menti e i cuori della classe media che, nascendo e crescendo, porterà l’Italia agli anni 70 nati dal fracasso e poi alla stagione rampante degli anni 80.
La Mafia intanto aveva imparato bene a prosperare come patologia della democrazia: droga e prostituzione (insieme alla mediazione per molti affari ai confini della diplomazia internazionale periferica) ne avevano fatto una potenza economica e geopolitica che da Singapore agli Stati Uniti prosperava pazzamente. La nuova classe media siciliana non aveva però né la rassegnazione dei genitori contadini né l’ipocrisia dell’alta borghesia collusa, non poteva sopportare dunque il bestiale giogo mafioso che rallentava l’avanzamento economico e sociale della Sicilia, oltre a limitarne anche le espressioni vitali artistiche e intellettuali.
Giornalisti, ufficiali, uomini delle istituzioni e magistrati “maleducati” entrarono dunque nel mirino di Cosa Nostra, che era ormai passata in mano ai Corleonesi.
Il movimento contadino si era esaurito, le campagne degli anni 70 e 80 avevano perso importanza e prestigio, le periferie cittadine (anche quelle centralissime come il bestiale centro storico palermitano) erano divenute le nuove roccaforti mafiose da cui si controllava quel potere pazzesco.
Eppure Riina riuscì a imporre le campagnacce al centro del Mondo, soggiogando Palermo e New York. Un delirio geopolitico che fu possibile solo tramite una violenza che ruppe l’unità di Cosanostra. Non poteva durare e non durò, non durando si scatenò la violenza corleonese anche fuori dalla Cupola, coinvolgendo la società civile che aveva maturato ormai una sufficiente intransigenza e autonomia dalle vecchie classi dirigenti. Queste in extremis provarono anche a salvarsi, avendo anche perso i proprio ufficiali di collegamento con quella “illegalità protetta” (cit. Rocco Chinnici) che convergeva prima con la loro strategia.
Al di là di eroici martiri, a cominciare da Pio La Torre (PCI) e Piersanti Mattarella (DC), la vera svolta va vista nei meccanismi sociali ancora una volta.
Il filo rosso che legava Chinnici ai suoi più giovani collaboratori Falcone e Borsellino era innanzitutto uno: la scuola di massa. Questi magistrati avevano fatto le scuole dell’obbligo in istituti statali, come poi il liceo. Il buon livello raggiunto dalla pubblica istruzione dagli anni 60 in poi fu determinante per creare una nuova classe dirigente fuori da quei percorsi in cui le famiglie “perbene” iniziavano il loro consociativismo endogamico e le collusioni col malaffare.
La scuola di massa non ha solo prodotto quei magistrati ma anche una cittadinanza più emancipata, nelle città come nelle campagne.
Il punto di svolta fu l’ingresso del PSI al governo all’inizio degli anni 60, per cui venne abolita la classista scuola di avviamento al lavoro, istituendo la scuola media uguale per tutti da cui poter accedere a ogni possibile scuola superiore. Per non parlare del rilancio delle classi miste e, successivamente, l’apertura degli studi universitari (molti dei quali permessi prima solo ai maturati al classico). L’ultimo grande nemico da abbattere resterà a lungo la dispersione scolastica che nei quartieri più a rischio rimane con tassi da terzo mondo, segnale ecologico di terreno fertile per il reclutamento mafioso.
Con l’evaporazione della classe contadina nei nuovi ceti, il PSI non smise di portare avanti quella lotta per la modernizzazione dello Stato e apertura della Società che implicitamente servivano all’emarginazione dei fenomeni criminali. Pertini, Craxi e Martelli furono sempre attivisti, anche quando la battaglia garantista seguente gli anni di piombo sembrava mettere in contrasto il PSI con l’azione della magistratura. In realtà il Codice Vassalli fu importantissima per creare quella credibilità del sistema giudiziario italiano, necessaria per quelle collaborazioni investigative internazionali che ruppero la spina dorsale di Cosanostra. Prima invece, col codice ancora fascista, la lotta sommaria al terrorismo aveva garantito a molti odiosi criminali la protezione della comunità internazionale, facendo figurare il nostro Paese alla stregua di una dittatura sanguinaria.
A maggior ragione poi con la grande intesa tra Martelli e Falcone, il PSI ha potuto segnare la definitiva coerenza di un impianto metodologico efficace.
Ci sarebbe molto da dire qui mi limito a terminare segnalando come la lotta alla mafia rappresenti una efficace cartina di tornasole nel percorso pluralista e interclassista del socialismo italiano: emancipando il proletariato in classe media, e dando poi loro possibilità di divenire classe dirigente, si è potuto dar vita a una coscienza civile sempre più refrattaria al malaffare. Almeno quello mafioso…ma sono stanco e immagino anche voi che siete arrivati fin qui.
POSTFAZIONE: questo articolo è la rielaborazione di un altro pubblicato nel 2016 sull’Intellettuale Dissidente. Venne ripreso da molti altri siti, piacque molto, ma adesso sulla rivista della GOG non compare più. Ho deciso dunque di migliorarlo e pubblicarlo qui.